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il figlio

Il mio fantasma. La relazione con la propria madre diventa una radiografia del dolore

Giacomo Giossi

Dopo "Primo amore", Gwendoline Riley prosegue così la lettura dei legami famigliari e delle loro perversioni con "I miei fantasmi"

Sopravvivere alla relazione con la propria madre significa per Bridget - voce narrante dell’ultimo romanzo di Gwendoline Riley, I miei fantasmi (Bompiani) -, estraniarsi da sé stessa per rendersi invulnerabile agli attacchi continui che le verranno scagliati addosso. Una madre, Helen, che cela sotto un’apparenza estetica piccolo borghese una violenta fragilità che diviene il coltello con cui sfregiare parola dopo parola, o anche solo con il semplice atteggiamento di una minimale mancanza, il corpo e la mente di Bridget. Dopo Primo amore, Gwendoline Riley prosegue così la lettura dei legami famigliari e delle loro perversioni con I miei fantasmi

 
I due romanzi assumono  una compattezza linguistica di senso e di tono (anche grazie all’ottima traduzione  per entrambi i testi a cura di Tommaso Pincio) che li fa apparire come un vero e proprio dittico. Riley sfugge l’ironia che pure attraversa carsicamente alcuni brani de I miei fantasmi, perché il suo intento non è rappresentare un legame e le sue contraddizioni all’interno di una situazione intellettuale e borghese, ma mostrare quanto quel legame possa invece scatenare un dolore tanto profondo quanto permanente. I miei fantasmi non è un ritratto, ma una  radiografia del dolore. Bridget accetta il legame come tale, come inscindibile e prova a domarlo nella sua assurda violenza. La madre presta così il suo corpo ad un sentimento totale di odio che diviene palpabile come materia viva che zampilla fuoco contro la figlia. Non esiste più una persona, una donna di nome Helen, ma solo Hen (così vuole essere chiamata), come un automa privo di memoria. Un elemento totalmente simbolico attorno al quale Bridget diviene l’oggetto sacrificale. Riley costruisce un romanzo in forma di dramma, cinque atti per cinque movimenti attraverso i quali Bridget decripta gli scarti minimi della madre e della sua psiche. Intellettuale quarantenne, Bridget vive un’emancipazione dalla piccola borghesia come una forma di cappio invisibile, come una condanna materna a cui non può sottrarsi. Helen è una donna fragile segnata da una personalità bipolare e a tratti schizoide che pare essere incapace di contenere alcun dato di realtà. La sua fantasia diviene il terreno fervido per assurde paranoie pronte per essere usate contro Bridget. Non è prevista salvezza in questo quadro, ma solo la possibilità - ostinatamente ricercata dalla figlia - di carpirne di volta in volta un pezzo di più, dando in cambio ogni volta un pezzo di sé. Uno scambio rischioso e dall’equilibrio fragilissimo. Le accuse si alternano ai silenzi, il falso al vero in un susseguirsi a tratti assurdo quanto osceno per durezza e resistenza: “Anche solo l’idea che ci abbandonassimo a un pizzico di fittizia complicità era svanita. E ancora una volta provavo vergogna, mi sentivo sporca e meschina. Non appena uscivo in modo inequivocabile dal personaggio, non appena l’illusione che io stessa avevo evocato svaniva, mi trovavo costretta a ignorare la sua espressione sconvolta e tradita. Allora bisognava distrarla, e alla svelta”. L’orlo del precipizio è sempre a un passo mentre le due donne si confrontano e inevitabilmente si specchiano l’una nell’altra. Gwendoline Riley conferma una maturità piena e una scrittura salda e mai addomesticata. I miei fantasmi è il racconto di una madre fatto da una figlia disperata e disamata. Un confronto estremo e primordiale dentro al quale la diversità delle due donne contraddistingue una lacerazione inevitabile quanto dolorosa. 
Il sogno di mia madre che fu di Alice Munro qui ha la cifra di un incubo psichico. Abbandonata la cura, persa ogni tenerezza, resta una violenza interiore quale segno inverso e tragico di un amore ugualmente inesauribile e reciproco. 

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