La facciata del liceo Berchet, a Milano (Ansa)

Il Figlio

Berchet, addio. Invettiva di una ex liceale contro lo sciocco elitismo scolastico

Raffaella Silvestri

La notizia dei 56 studenti che hanno abbandonato il liceo classico di Milano non è una novità. Un metodo che è assorbire tutto, sopportare tutto, domandarsi poco, ma soprattutto contestare niente

Ogni volta che passo in via della Commenda 26 Milano, e cioè davanti alla mia vecchia scuola, il liceo ginnasio classico statale Giovanni Berchet, mi viene una strana sensazione di oppressione e pericolo che oggi qualcuno chiamerebbe PTSD. Ogni volta prendo il telefono, faccio una story su Instagram e dico sul Berchet qualcosa di sgradevole: l’ultima volta, affacciandomi nell’atrio, ho detto che pareva un manicomio. Come vedete il liceo classico non mi ha insegnato strumenti di contestazione particolarmente efficaci. Tutte quelle manifestazioni a cui ho partecipato per saltare qualche ora di greco, i cortei in cui i capetti andavano a far vedere il culo al vicino Gonzaga, erano solo una posa: tutti avevano già assimilato dal Berchet che l’unico valore era non contestare NIENTE. Assorbire tutto, sopportare tutto, domandarsi poco, ma soprattutto contestare niente. Come al militare. Al Berchet dicevano che dovevamo diventare intellettuali. Molti ci hanno creduto. Che tipo di intellettuali saranno usciti da quella formazione che insegnava di essere intrinsecamente migliori degli altri, solo per il fatto di essere lì? Un assurdo elitismo, neanche fossimo a Eton, solo che noi eravamo lì non perché proprietari di titoli nobiliari ma perché magari qualche mamma aveva avuto velleità letterarie. Un mio compagno dal cognome importante voleva fare matematica all’università, avrebbe voluto fare lo scientifico, ma il padre glielo aveva impedito.

 

È notizia recente che 56 studenti hanno abbandonato il Berchet in sei mesi. Ma gli studenti hanno sempre abbandonato il Berchet, c’era anche una specie di rito medievale di public shaming per cui chi restava parlava della debolezza del fuggitivo, si complimentava della fortitudine di chi restava, e si pensava che là fuori chissà quale premio ci aspettasse. Il premio: il primo voto che ho preso all’università è stato “sufficiente” in uno scritto su Dante (diventato poi 26 all’orale). Alla specialistica, nella culla dell’elitismo e del privilegio inglese, un professore mi disse: “non è colpa mia se nelle scuole italiane non vi insegnano la matematica”. C’è la questione della faccia. “Mio figlio ha cambiato faccia”, è diventato scuro, ombroso, sofferto. Anche mia sorella, più giovane di me di sei anni, aveva cambiato faccia. Non è questione di classico o scientifico, di rigore, di quantità di ore di studio (ma se a quindici anni non hai tempo di fare uno sport, qualche domanda sarebbe da fare), è questione di mentalità e metodo. Mia sorella dopo due anni ha cambiato scuola e si è ripresa la sua faccia. Io che ero la prima non pensavo di avere quest’opzione, quindi la mia faccia, qualunque fosse, non me la sono più ripresa. Ho sofferto per cinque anni ma almeno non ho mai fatto finta che quella sofferenza fosse utile o giusta, non ho mai, anche quando ne sono uscita e quindi ero libera come gli altri di dire che il classico era il migliore, non ho mai finto che fosse andata bene, cioè di avere una cultura superiore, o anche solo solida.

 

In realtà la formazione del classico è molto carente, e i dati non sostengono la tesi che avvantaggi all’università. Ma voglio qui solo raccontare di quello sciocco elitismo, di quell’ambiente in cui l’ansia, lo stress, la scoliosi, l’isolamento dal mondo sono visti come medaglie al valore. La troppa ansia in quel contesto non è riconosciuta come sintomo di un ambiente punitivo, gerarchico, verticale e – lasciatemi usare la parola –  tossico, ma considerata un difetto caratteriale. Tutto quello che ho fatto dopo l’ho fatto non grazie al Berchet, ma nonostante il Berchet – compreso quello che so grazie a una insegnante illuminata del Berchet: mi ha insegnato nonostante l’ambiente in cui si trovava. Anche a livello emotivo. L’umiliazione, non la severità e non la difficoltà della materia è il pane quotidiano del Berchet e la ragione per cui molti se ne vanno. Lì ho imparato soprattutto che dovevo nascondermi, e dovevo nascondere di non capire, ma anche di voler capire. Nascondere tutto. Questo tutto è andato sui giornali, ed è questa la vera notizia: magari qualcosa sta cambiando.

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