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Il Bi e il Ba
Ricordare gli errori giudiziari è sconveniente
L'avvocato di Aldo Scardella, dopo aver raccolto le firme per intitolare al ragazzo che si impiccò in carcere l'aula magna del Palazzo di Giustizia di Cagliari, si è sentito rispondere che questo "getterebbe discredito sulla magistratura". Il problema non è il discredito, ma l'angoscia, il foro interiore. E dunque la colpa
Non si parla di corda in casa dell’impiccato. L’impiccato è Aldo Scardella, il ragazzo di ventiquattro anni che si uccise in una cella di isolamento del carcere di Buoncammino a Cagliari il 2 luglio 1986, dopo sei mesi di detenzione da innocente. Quanto alla casa, non è difficile trovarne l’indirizzo: è quella in cui si parla malvolentieri della corda. Apprendo da un articolo di Valentino Maimone su La Ragione del 14 ottobre che l’avvocato Patrizio Rovelli, dopo aver raccolto migliaia di firme per intitolare a Scardella l’aula magna del Palazzo di Giustizia di Cagliari, si è sentito rispondere dai presidenti del Tribunale e della Corte d’appello che “ricordare un errore giudiziario getterebbe discredito sulla magistratura”. Risposta franca ma, credo, anche bugiarda: il problema non è il discredito, dunque l’immagine pubblica, bensì l’angoscia, dunque il foro interiore. Non la vergogna, ma la colpa.
Era stato Leonardo Sciascia, in un articolo del 1983, a spiegare psicologicamente la riluttanza della corporazione togata ad ammettere la possibilità dell’errore. Poiché la società li ha delegati “a punire la violenza con la violenza”, i magistrati si sentirebbero inibiti a esercitarla “se non riuscissero a respingere ai margini, in un marginale baluginio della coscienza, la preoccupazione dell’errore”. Per la stessa ragione resistono con tanta sintomatica tenacia all’istituzione di una giornata nazionale in memoria delle vittime degli errori giudiziari. Non possono tollerare che si punti un faro accecante su un abisso che vorrebbero illuminato solo dal tenuissimo baluginio di cui parlava Sciascia. Si tramanda che nella Repubblica di Venezia il segretario del Consiglio dei Dieci, massimo organo giurisdizionale penale, ammonisse così i consiglieri che si apprestavano a pronunciare una sentenza: Recordéve del povaro fornareto, ricordatevi del povero fornaretto, vittima di un errore giudiziario del 1507. Si tramanda, ma è una leggenda, non c’è niente di vero. Anche allora, come oggi, era sconveniente parlare di corda.


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Il drago ingrassato del postcomunismo italiano

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