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Il Bi e il Ba

Gender theory e decostruzione dell'identità ebraica

Guido Vitiello

Negli scritti di Judith Butler l'identità sessuale e quella etnico-nazionale sono catturate in un gioco di specchi. Nasce così una doppia contrapposizione: ebreo senza patria (libero ed emancipato) contro ebreo etnico (e dunque razzista), persona queer contro persona confinata nell'eteronormatività. Questo in filosofia. Nella vita reale è più complicato 

Quando, nell’autunno del 2023, si avvistarono i primi cartelli con la scritta Queers for Palestine, ne seguì un diluvio di meme più o meno spiritosi – dai Polli per il Kentucky Fried Chicken ai Neri per il Ku Klux Klan – e la cosa fu archiviata lì. Un po’ di curiosità in più avrebbe giovato, e magari un’occhiatina ai sacri testi della fondatrice. Sostiene Bruno Chaouat (Is Theory good for the Jews?, Liverpool University Press, 2020) che bisogna essere davvero molto miopi per non riconoscere nella decostruzione dell’identità ebraica compiuta da Judith Butler alcuni topoi della gender theory. Chaouat si sofferma in particolare sul commento che Butler, in Strade che divergono, dedica a una lettera del luglio 1963 di Hannah Arendt a Gershom Scholem, in cui la filosofa antitotalitaria dice che l’essere ebrea è uno dei “dati di fatto indiscutibili” della sua vita, e che negarlo “sarebbe stato come dire che ero un uomo e non una donna – cioè qualcosa di insensato”.

Come si intuisce, i due campi – l’identità sessuale e quella etnico-nazionale – sono catturati in un gioco di specchi. La questione è davvero troppo intricata per il formato bonsai del Bi e il Ba; mi secca dirvelo, ma dovete leggervi Butler per conto vostro. Ad ogni modo, da queste letture sparse ho ricavato un’equazione un po’ brutale: la jewishness, nella sua accezione positiva, emancipatrice e potenzialmente sovversiva, sta allo Stato di Israele come la queerness sta al regno dell’eteronormatività, protetto anch’esso da linee di confine e check-point. L’ebreo etnico è per definizione essenzialista, perciò colonialista e razzista; dunque l’ebreo che sceglie di interpretare una ideale “ebraicità” inquieta e senza patria, al di là delle essenze e delle genealogie, non può che essere radicalmente antisionista. Questo, almeno, in filosofia, dove c’è sempre modo di farsi tornare i conti. Nella vita reale non è altrettanto facile, e il cartello Queers for Palestine suggerisce un dilemma più prosaico: avere un tetto (sionista) sulla testa, o finire scaraventati da un tetto. 

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