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Dopo Charlie

Simonetta Sciandivasci

L’attentato del 7 gennaio 2015 ha inibito e poi ammazzato il desiderio di rischiare. Un libro

Il tempo che viviamo è il giorno dopo Charlie. Altro che Terrible Ten. Così dovremmo chiamare questi anni e il presente e il futuro che stanno apparecchiando, e il loro spirito, il nostro spirito: il giorno dopo Charlie. Che non è tanto l’8 gennaio del 2015, quando tutti eravamo Charlie e lo scrivevamo e dicevamo ovunque, spavaldamente convinti che la satira e il giornalismo dovessero essere liberi sempre e senza condizioni, furiosamente incazzati per quell’orrida strage che ieri ha fatto cinque anni. La ricordate, ma ricordiamola di nuovo: la mattina del 7 gennaio del 2015, due jihadisti (deux salopards, due bastardi, ha scritto il magazine Marianne) entrarono nella redazione di Charlie Hebdo, a Parigi, e aprirono il fuoco. Morirono 12 persone, alcune di loro erano firme storiche di vignette altrettanto storiche, e formidabili. Il giorno dopo Charlie è l’8 gennaio del 2020 e pure del 2019 e del 2018 e del 2017, e tutti i giorni che abbiamo lasciato che ci convincessero che esiste un modo per rendere inoffensivo il racconto della realtà, e che si deve tutelare chi ascolta molto più di chi dice. Cinque anni fa, Charlie vendeva otto milioni di copie, quest’anno non va oltre le trentamila. Spende moltissimi soldi nella manutenzione dei locali della redazione e nel mantenimento della sicurezza. Fatica a sopravvivere, come molti giornali, più di altri giornali. Perché ha costi maggiori e difficoltà maggiori, la più importante delle quali è insormontabile e la evidenziava ieri Libération: dallo spirito di Charlie ci siamo distaccati tutti, più o meno silenziosamente. 

 

 

A quell’idea di libertà incondizionata e non condizionabile che sventolavamo per rivendicare che quei 12 morti non erano morti invano, non crediamo più. Dopo la strage del 7 gennaio è finito un modo di fare giornalismo, di dire le cose, di farsi un’idea del mondo, ed è incredibile quanto poco ricolleghiamo a quella ferita così insanabile tutto quello che è venuto dopo, il giustizialismo degli hashtag, la cancel culture, l’appropriazione culturale, e tutte le forme più o meno progressiste di dar corda al terrore di dire le cose così come sono, o così come le pensiamo.

 

Scrive Philippe Lançon, collaboratore di Charlie Hebdo, nel suo La Traversata (in libreria da oggi, per e/o), un libro di 400 e passa pagine su cos’è stato quell’attentato, per lui che era lì e ci è quasi morto, e cos’è, ora, essere un sopravvissuto a quel giorno indimenticato ma incompreso: “Eravamo lì solo per dire cazzate, dire tutto quello che ci passava per la testa, insultarci e divertirci senza preoccuparci di essere beneducati, competenti o ragionevoli, senza fare quelli che sanno. Dire cazzate per svegliarci”. Riuscite a immaginare, oggi, un giornale che possa o voglia vantarsi di dire cazzate e che voglia esistere per poterlo fare, mantenendo ferma l’idea che non la verità ma l’errore, non la protezione ma il pericolo, non la conclusione ma il ragionamento facciano bene al lettore e all’uomo che sta dentro il lettore? L’attentato a Charlie Hebdo ha inibito e poi ammazzato il desiderio di rischiare, che è l’inizio della conoscenza, almeno come ce l’ha tramandata Omero, o i cento uomini che sono stati Omero. L’attentato a Charlie Hebdo lo dobbiamo ricordare perché sono morti degli uomini liberi mentre lavoravano, ma soprattutto perché dobbiamo ricordare che quegli uomini liberi erano essenziali perché sbagliavano, e non rincorrevano né la cosa giusta da dire né il modo migliore per dirla.

 

Le piazze sono piene di gente che sta male e i giornali sono pieni di (prendo sempre da Lançon) “gente ossessionata dalla propria competenza che scrive articoli rigorosi, è vero, che però finiscono per mancare di immaginazione”. Il giorno dopo Charlie abbiamo sbarrato la porta all’immaginazione, che è la via migliore verso la scoperta, e siamo diventati dispensatori di farmaci contro il male che fanno i fatti. Sulla copertina dell’ultimo numero di CH, il numero speciale che la redazione ha preparato per questo quinto anniversario, tra le scritte “Nuove censure” e “Nuovi dittatori” c’è un enorme telefono, nel cui schermo compaiono le icone di Twitter e Facebook, che schiaccia la lingua e le mani di un uomo. E’ un’indicazione precisa: noi che eravamo Charlie abbiamo dato ragione a quelli che non volevano che lo fossimo, abbiamo fatto vincere le armi spuntate della correzione dell’espressione, e le portiamo sempre in tasca, lasciando che ci illudano di essere liberi, mentre la sola cosa che ci offrono è il prezzo della nostra libertà, per inibirla e scioccarla. “Un giornalista può essere un bersaglio, non un argomento”, scrive Lançon. E questo ha fatto, quella strage, del giornalismo: una vittima, purtroppo neanche commiserata.

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