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Il problema della democrazia rappresentativa

Ci illudiamo che con l’elezione si stabilisca un rapporto stabile elettore-eletto. Un grave errore. Con il voto non scegliamo nessuno, ma diamo un’investitura 

Professor Sabino Cassese, inizia la registrazione dei parlamentari, si apre un nuovo capitolo della storia della democrazia rappresentativa italiana.

Inizia sotto pessimi auspici. Il legame politico tra governanti e governati è debole, c’è volatilità elettorale, riflusso dell’impegno politico, astensionismo (per chi lo ritiene un segno di malessere), sfiducia. Contemporaneamente, al circuito politico si sostituisce quello giudiziario; l’esplosione delle tecnologie nutre utopie iper-democratiche, di una democrazia più democratica; i “rappresentanti” sono sempre più incompetenti e non si riesce a trovare il modo di salvaguardare, nello stesso tempo, suffragio universale e selezione epistocratica dei “rappresentanti”; nel corpo elettorale stesso c’è ignoranza e orgoglio dell’ignoranza; ci si chiede se, fermo il suffragio universale, debba essere universale anche l’accesso (in fondo, già oggi non possono accedere alle cariche pubbliche persone la cui moralità sia messa in dubbio da decisioni giudiziarie).

 

Una massa di problemi insoluti. Andiamo in ordine, se non le dispiace.

Bene. Se ha voglia di seguirmi, comincerò con il concetto e la realtà stessa della rappresentanza, per poi passare a interrogarmi su “a che cosa serve”. Non vorrei stupirla, ma comincio dicendo che quando definiamo democrazia rappresentativa quel rito al quale abbiamo partecipato in Italia il 4 marzo (le elezioni politiche nazionali) diamo un sovrappiù di significato a un atto che consiste soltanto in una investitura. Noi non abbiamo scelto i nostri rappresentanti. La rappresentanza, nel diritto, consente di compiere un atto per conto di un altro, costituisce un rapporto tra rappresentante e rappresentato. Ma già nel 1970, quel fine e grande giurista che è stato Massimo Severo Giannini osservava che la cosiddetta “rappresentanza politica” non è che un modo di collegamento (aggiungo io: precario) tra gruppi ed enti esponenziali dei gruppi, perché “il rappresentante non imputa né effetti né fattispecie ai rappresentati”. Detta in soldoni, con l’elezione non si stabilisce un rapporto stabile elettore-eletto, quest’ultimo non conosce la volontà del primo, né il primo può influenzare l’eletto.

 

Ma noi ci illudiamo…

Ci illudiamo perché siamo prigionieri di retoriche democraticistiche e non guardiamo in faccia la realtà. (segue nell’inserto III)

Pensi che il nostro maggiore sociologo, Alessandro Pizzorno, introducendo la traduzione italiana dell’“opus magnum” di Hanna Fenchel Pitkin su “Il concetto di rappresentanza”, la “summa” in materia, un libro uscito nel 1967 e finalmente tradotto in italiano per merito dell’editore Rubbettino, ha scritto che la rappresentanza politica consiste soltanto nella nomina di funzionari di cui l’elettorato non conosce la competenza e che non controlla; che il voto è solo un atto di solidarietà tra coloro che con il loro voto credono di avere il potere di scegliere i migliori a governare lo Stato; che è impossibile far giudicare agli elettori l’attività dei loro eletti (la cosiddetta “accountability”).

 

Sì, ma allora che facciamo quando votiamo?

Con il voto noi partecipiamo alla procedura di preposizione di un titolare a ufficio pubblico. I nomi vengono fatti dai presentatori delle liste e noi abbiamo una limitata possibilità di scelta (se ci sono le preferenze), altrimenti diamo o neghiamo il nostro consenso. Quindi non scegliamo, aderiamo a una scelta fatta da altri. Questa adesione o consenso non stabilisce un rapporto tra elettore ed eletto (quest’ultimo non sa neppure chi l’ha eletto), così come la nomina da parte del presidente della Repubblica dei senatori a vita o dei giudici costituzionali non crea un rapporto tra il presidente e il nominato.

 

Ma, se giudichiamo negativamente l’operato degli eletti, possiamo non votarli nuovamente.

Giusto. Ed è per questo che quella che chiamiamo democrazia comporta ripetute elezioni, un aspetto che Pizzorno non ha considerato. Accanto a un potere di investitura, abbiamo anche un potere di disinvestitura.

 

Resta l’altra questione da lei indicata.

A che cosa serve la preposizione o investitura. Ora deve avere la pazienza di seguirmi in un rapido percorso storico. Il suffragio era inizialmente ristretto in base al censo, la condizione patrimoniale dei cittadini. Questo – l’ha scritto Giuseppe Galasso in un suo piccolo bel libro (“Liberalismo e democrazia”, edito da Salerno nel 2013) – “fungeva da metro ritenuto più sicuro di ogni altro nel misurare il grado di senso della responsabilità civica e dello spirito comunitario del cittadino, almeno nell’esercizio di pubbliche responsabilità”. Poi, la commissione presieduta da Cavour, immediatamente prima dell’unificazione, propose di “chiamare nel corpo elettorale i cittadini che, per indizi legali più sicuri del censo, sono riputati possedere la capacità necessaria all’esercizio dei diritti politici”. Si apriva la strada al requisito dell’istruzione. E il nostro grande Vittorio Emanuele Orlando, nei “Principi di diritto costituzionale” (1889) scriveva che “l’elezione non è delegazione di poteri, ma designazione di capacità”. Sono poi intervenuti gli allargamenti del suffragio, riconoscendo a tutti il diritto di voto, assumendo che questo comporti eguaglianza, che – rilevava Croce – è una finzione. Sempre Croce riteneva che “mandare ai parlamenti un buon numero di persone intelligenti, capaci e di buona volontà”, alla metà del secolo scorso, era compito dei partiti (se le interessa, lo scritto di Croce, intitolato “Ufficio ideale del suffragio universale”, del 1950, è ora in “Terze pagine sparse”, Laterza, 1955). Ora i partiti non ci sono più o sono figure evanescenti, e la “designazione di capacità” non è compiuta più né dal censo, né dall’istruzione, né da un educatore collettivo, il partito.

Quel che sta dicendo conduce alla conclusione che la democrazia è in cattive condizioni.

Sì, e si stanno moltiplicando le analisi della recessione della democrazia, accompagnate anche da proposte. Ad esempio, Hanna Fenichel Pitkin, in uno scritto del 2004 pubblicato anch’esso nel libro prima citato, ha concluso che “la democrazia diretta partecipativa locale assicura la democrazia rappresentativa nazionale”. Questo a me pare un “sogno ateniese” portato al livello degli Stati nazionali. Invece, penso che bisogna insistere sui diversi modi di controllare l’esercizio del potere. In fondo, quello che chiamiamo democrazia è uno strumento per limitare il potere. Se essa ha un ambito limitato di azione, occorre agire con altri strumenti, quali la separazione dei poteri, i poteri contrapposti, le investiture separate, la separazione tra indirizzo/controllo e gestione, l’imparzialità dell’amministrazione, le autorità indipendenti, la tecnicità della burocrazia. Sono tutti questi gli strumenti moderni della democrazia, che bisogna rinvigorire in attesa delle correzioni epistocratiche della democrazia.

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