Una manifestazione di studenti contro la Buona Scuola (foto LaPresse)

La Buona scuola non necessaria o non sufficiente?

Marco Campione

L'errore del Pd scivolato da una tensione riformatrice ad un progressivo accantonamento della tematica scuola. E come con il governo Prodi I la sconfitta è stata in gran parte causata dal non aver portato fino in fondo la volontà di cambiamento

Ha scritto Carlo Stagnaro (impegnato in questi anni al MISE in ruoli analoghi ai miei al MIUR): “Il nostro motto ha smesso di essere en marche ed è diventato resistere resistere resistere. Prima volevamo cambiare il mondo, poi salvare il salvabile…”

 

Sono parole che ben descrivono lo stato d’animo di molti di noi. L’immagine che il centrosinistra ha dato con i suoi stop-and-go è stata (dal 2016 in poi) quella di non essere abbastanza credibile come partito riformatore. Ed è stato punito con l’astensione da circa 2 milioni di (ex) elettori, non tanto perché questi hanno considerato il lavoro fatto “non necessario”, quanto piuttosto “non sufficiente”.

Un esempio è la Buona Scuola: siamo infatti riusciti nell’impresa di scontentare prima quelli che si opponevano alla legge e poi quelli che la sostenevano come esempio di riformismo e volontà di abbandonare le vecchie logiche. Abbiamo ammainato una bandiera che ci aveva dato un’identità riconoscibile e altri l’hanno simbolicamente raccolta. Il Pd è così scivolato da una tensione riformatrice con un solo precedente abbastanza recente (il primo governo Prodi) ad un progressivo accantonamento della tematica. Con un risultato solo apparentemente paradossale: la scelta di Di Maio di indicare non “un” Dirigente Scolastico, ma “quel” Dirigente Scolastico come ministro in pectore dell’Istruzione. Un dirigente che è stato ed è un esempio di buona scuola e un modello per la Buona Scuola, prima che un consulente per la sua attuazione.

  

 

Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Quelle di chi aveva incarichi tecnico-politici al MIUR sono (complice anche il famigerato “algoritmo” per la mobilità dei docenti del 2016) di non essere più riusciti, nel momento di maggiore difficoltà, a trovare gli argomenti giusti per convincere Renzi della necessità di continuare a rappresentare le aspettative di chi ha visto nella Legge 107 non solo la sacrosanta archiviazione della patologia del precariato (nel 2013 il 15% circa dei docenti in organico era precario, oggi è un fisiologico 5-6%), ma anche il tentativo di liberare le energie di cui la scuola è ricca.

 

Tentativo riuscito solo in parte, è vero, ma allora bisognava insistere su questa strada. Esplicitarla, correggerla quando necessario, cercare alleanze - nella scuola ma anche nella società nel suo complesso - per superare gli ostacoli che da soli non potevamo o sapevamo superare. Renzi (e con lui il Pd, con poche eccezioni) è così passato dal parlare insistentemente di scuola e poco altro a non parlarne affatto. Al MIUR non è stato così, almeno all’inizio del Governo Gentiloni: il primo atto della nuova Ministra è stato quello di esercitare le deleghe previste dalla Legge 107. Fedeli avrebbe potuto benissimo nascondersi dietro un diplomatico “sono appena arrivata” e lasciarle scadere; ha compiuto quindi un atto non scontato, che peraltro consentirà alla Legge 107 di sviluppare nei prossimi anni molto del proprio potenziale di innovazione. Ma ciò non toglie che la scuola è comunque scomparsa dal dibattito pubblico ed è tornata argomento da circolo chiuso, con un proprio linguaggio da iniziati.

 

La sinistra di governo ha così ripetuto l’errore del periodo successivo al Prodi I, altra stagione di grandi riforme nella scuola: convincere prima di tutto se stessa che non fare nessuna riforma o annacquare quella in atto fosse preferibile ad una riforma “divisiva”. Un governo, quello Prodi, che ha molto altro in comune con quello Renzi: entrambi non si sono limitati ad intervenire sulla scuola, ma hanno messo l’istruzione al centro della propria proposta politica, entrambi sono partiti dallo slogan blairiano Education, Education, Education, entrambi hanno investito risorse economiche, entrambi nel metterci mano hanno capito che serviva innanzi tutto colpire la sclerotizzazione del sistema, spostare il focus dall’insegnamento all’apprendimento, scommettere sulla fiducia nei docenti e sull’autonomia. Entrambi hanno sottovalutato la fase di implementazione, commettendo quindi errori significativi e anche per questo hanno prestato il fianco alla reazione sindacale e alle resistenze conservatrici, che attraversano il mondo della scuola come ampie e trasversali sezioni della società italiana. Entrambi hanno incontrato l’ostilità dei laudatores temporis acti. Entrambi, infine, ad un certo punto sono stati abbandonati dal partito di riferimento: meglio nessuna riforma che una riforma “divisiva”, appunto. Come se esistessero riforme vere e non divisive. Ma soprattutto a entrambi quei grandi slanci riformatori sono seguite sonore sconfitte, in gran parte causate dal non aver portato fino in fondo la volontà di cambiamento, dal non essere riusciti a guadagnarsi il consenso dei tanti (studenti, famiglie, insegnanti) che avevano da guadagnare dal cambiamento in atto.

 

L’augurio che faccio alla sinistra di governo è quello di non dover aspettare altri vent’anni per avere una nuova opportunità per cambiare il Paese. E che quando quel giorno arriverà abbia finalmente imparato dai propri errori per riuscire a farne di nuovi, se proprio deve.

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