Azeglio Vicini (foto LaPresse)

Quando l'Italia era in tutte le Nazionali

Piero Vietti

Di Azeglio Vicini ricorderemo le bellissime e maledette notti magiche del 1990. Non vinse la Coppa del mondo ma ci regalò un mese di miracoli calcistici

A chiunque sia nato prima del 1985 (e non sia un giornalista sportivo) il nome di Azeglio Vicini evoca soltanto una cosa: non la sua dimenticabile carriera da calciatore, quando salì dalla B alla A con il Lanerossi Vicenza per poi giocare nella Sampdoria e nel Brescia; né le sue brevi parentesi da allenatore di club, nel Brescia a fine anni Sessanta e per due fugaci momenti nel Cesena e nell’Udinese a inizio anni Novanta; qualcuno, non molti, ricorderà le tante stagioni passate a guidare il settore giovanile della Nazionale italiana, l’Under 23 prima e l’Under 21 poi, dove scoprì e lanciò talenti ma non vinse nulla.

 

A tutti, invece, il nome di Azeglio Vicini fa tornare in mente l’estate di ventotto anni fa, quella del Mondiale giocato in Italia che gli Azzurri (diceva sempre così, Vicini, quando parlava della Nazionale, “gli Azzurri”) avrebbero dovuto vincere e che invece hanno perso in semifinale ai rigori contro l’Argentina. Al San Paolo di Napoli, dove il cuore dei tifosi sugli spalti era diviso in due, e batteva anche per l’avversario, quel Diego Armando Maradona che pochi giorni dopo avrebbe chiamato hijos de puta i tifosi dell’Olimpico di Roma per i fischi durante l’inno nazionale argentino. Il nome di Vicini è soprattutto questo, per gli italiani con più di trentacinque anni: un commissario tecnico per bene, innamorato dell’Italia e del suo lavoro che non è riuscito a fare quello che tutti si aspettavano facesse, vincere la Coppa del mondo a casa nostra. Non ce l’ha fatta, ma non troverete nessuno che ce l’avesse troppo con lui per questo (provate a chiedere di Ventura, piuttosto), perché Vicini ci regalò comunque un mese di miracoli calcistici.

 

Due nomi su tutti: Baggio e Schillaci. Partiti come riserve di Vialli e Carnevale e diventati quasi eroi di Italia 90, semidei di un’estate che tutti ricordiamo per la sua colonna sonora, Edoardo Bennato e Gianna Nannini, gli occhi spiritati di Totò Schillaci, lo slalom da pazzi di Roberto Baggio contro la Cecoslovacchia, l’unico ma fatale errore di Walter Zenga in quella semifinale, che consentì a Caniggia di pareggiare e mandarci ai rigori, là dove il portiere di riserva dell’Argentina visse una delle serate più belle della sua carriera. Dire che Vicini ha allenato l’Italia in un calcio che non c’è più non è retorica nostalgica per le maglie larghe e senza nomi, ma la constatazione di un fatto.

 

Nel 1988 gli Azzurri da lui allenati furono eliminati in semifinale all’Europeo dall’Unione sovietica, due anni dopo sconfissero la Cecoslovacchia nel girone eliminatorio, e nell’ottobre del 1991 non si qualificarono dopo uno 0-0 a Mosca di nuovo contro l’Urss. L’Argentina di Maradona fu sconfitta in finale a quel Mondiale dalla Germania, per la prima volta unita sotto un unico nome (e forse anche per questo aiutata con l’assegnazione di un rigore molto dubbio, dicono i complottisti). Quello di Azeglio Vicini fu anche il Mondiale più italiano di sempre, ma non perché si giocò nei nostri stadi (una delle eredità più brutte, che ancora ci portiamo dietro). Dei tifosi del Napoli che tifavano Argentina si è detto. Ma quell’anno c’erano anche gli interisti che simpatizzavano per la Germania, i milanisti che esultavano per l’Olanda e quasi tutti i tifosi italiani avevano un giocatore del loro club militante in qualche Nazionale. Era l’inizio del decennio d’oro del calcio italiano, quello che avrebbe trasformato la serie A nel campionato più bello e difficile del mondo, quello delle vittorie in Europa di Milan, Juventus, Parma, Lazio, Inter e Sampdoria. Azeglio Vicini, oltre ai meriti sportivi e umani che tutti da ieri stanno giustamente ricordando, rimarrà per sempre l’uomo delle notti magiche, che ha accompagnato l’Italia sulla soglia di un calcio che non c’è più.

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  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.