Museo delle Culture, Milano (foto LaPresse)

La scommessa pubblico-privato del Mudec tra successi di mercato e identità

Paola Bulbarelli

Da un lato la globalizzazione, dall’altro la chiusura agli altri popoli. In mezzo il Museo delle culture di Milano, un museo ambizioso e diverso

Da un lato la globalizzazione, dall’altro la chiusura agli altri popoli. In mezzo il Mudec, Il Museo delle culture di Milano e polo espositivo, scommessa culturale inaugurata nel 2014, dedicato alla valorizzazione e alla ricerca interdisciplinare delle culture del mondo: 17 mila metri su più livelli, dedicati alla molteplicità delle culture, con collezioni etnografiche di proprietà del Comune, e donazioni di oggetti e reperti (7.000 pezzi, dal 1.200 avanti Cristo alla prima metà del ’900) provenienti da tutti i continenti e che costituiscono le Civiche Raccolte Etnografiche. Un insieme di opere d’arte, sculture, maschere, tessuti, oggetti d’uso e strumenti musicali che un tempo erano assiepate al Castello Sforzesco, senza possibilità di essere esposte, e ora si trovano qui: negli ampi spazi dell’ex Ansaldo, il cuore della Milano ex industriale, nei padiglioni trasformati da David Chipperfield, archistar britannica che ha ideato una struttura ondulata, per raccordare i vari luoghi espositivi e non solo. Il Mudec Design Store vuole essere un punto di riferimento per le tendenze del design contemporaneo, una “wunderkammer” che raccoglie oggetti nuovi provenienti da tutto il mondo e che trae ispirazione dalle collezioni permanenti del Museo delle Culture. E il Mudec Bistrot, affidato allo chef bistellato Enrico Bartolini.

 

 

Comune di Milano e 24 Ore Cultura-Gruppo 24 Ore hanno fatto la scommessa, non era semplice, e hanno trovato la formula per gestire in partnership un museo ambizioso e diverso – tra pubblico e privato – rispettandone l’identità di polo culturale e allo stesso tempo rispondendo alla necessità di efficienza e di sostenibilità economica, che significa mostre di richiamo, lontane dalla nicchia. Missione nobile: promuovere la comprensione di realtà lontane, creando un collegamento e valorizzando quelle già presenti nel territorio cittadino.

 

I biglietti venduti dal marzo 2015, data di apertura del Mudec, sono un milione e 800 mila, considerando sia quelli staccati per le 13 grandi mostre organizzate in tre anni e mezzo sia quelli relativi alla collezione permanente (gratuiti in quanto museo civico), il cuore identitario del Mudec con le sue collezioni etnografiche provenienti da Asia, Africa, America e Oceania, aperte al pubblico con visite guidate una volta al mese. Tra i successi delle mostre temporanee, quella di Frida Kahlo (380.124 ingressi), Basquiat (114.086), Klimt Experience, una rappresentazione multimediale (oltre 100 mila visitatori).

 

Mostra Kandinsky al Mudec di Via Tortona


 

“Il Mudec – racconta Anna Maria Montaldo, da oltre un anno direttrice del Polo arte moderna e contemporanea di Milano che comprende Museo del Novecento, Galleria d’Arte Moderna e Museo delle Culture – nasce inizialmente per la volontà dell’amministrazione comunale di trovare collocazione alle collezioni etnografiche. Questa idea si è sviluppata in senso più contemporaneo spostandosi verso un museo delle culture, come centro non solo di studio e conservazione ma anche come luogo di senso per le varie comunità e culture che abitano Milano”. Da lì è anche partita l’associazione Città Mondo, che vede coinvolte oltre 500 associazioni rappresentative delle numerose comunità internazionali sul territorio. “Un’idea straordinaria, innovativa e molto complessa. Ci sono comunità aggregate e altre più diffuse, altre ancora meno integrate. Con il Mudec si cerca di dare una risposta anche di crescita e un modo per renderle autonome”. Ciò che si era prefisso è quindi stato raggiunto? “Si sta andando nella giusta direzione. Gli obiettivi sono sempre in crescita in quanto un museo delle culture è in continuo rinnovamento e deve essere interprete della contemporaneità e del luogo dove vive e si sviluppa. Pensare che abbia raggiunto l’obiettivo non è la definizione giusta: perché il Mudec nella sua natura deve avere uno sguardo d’interpretazione della realtà, della comunità, della condivisione ed è quindi in continuo divenire”.

  

Molte perplessità iniziali aveva suscitato la collaborazione tra pubblico privato. Come sta funzionando?  “Va costruita, è un’esperienza complessa ma penso sia l’unico modo per far crescere il Mudec a livello internazionale, affinché questo museo assuma una sua identità completa e riesca a posizionarsi tra i musei interessanti. È necessario lavorare insieme e insieme abbiamo costruito ognuno una parte. Credo sia un esempio innovativo e raro di condivisione e convivenza tra pubblico e privato”. Ci sono state critiche per certe mostre. “Sulla carta pubblico e privato hanno missioni diverse, il pubblico non ha interesse al guadagno, a differenza del privato, ed è difficile conciliare queste due cose.  Ma c’è il modo per far dialogare il profit con il no profit. Siamo il primo esempio in cui si è riusciti a costruire in modo coerente e forte. Il percorso non può essere che ci facciamo guerra, ma nemmeno che ognuno vada per la sua strada. Non c’erano esempi simili a cui rifarsi, è un modello unico perciò capire come convivere e rafforzarsi non era facile. Fondamentale è remare nella stessa direzione”.

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