Andrea G. Pinketts (foto LaPresse)

Vade retro etno-food. Libere opinioni del gran Pinketts

Stefania Vitulli

E rimasto uno dei pochi rimasti a difendere la “Milano da bere” e quel che ne resta: “Era interessante. Almeno era un concetto, un’idea. Oggi la maggior parte dei locali vengono aperti come investimento e non per amore del cibo"

Eccolo lì, il Pinketts, ovvero Andrea G. Pinketts, scrittore milanese d’elezione che per scoprire e lanciare i suoi colleghi che gravitano intorno a Milano ha sempre fatto più degli innumerevoli editor griffati della capitale del libro. Se lo cerchi, lo trovi in piazza XXIV Maggio, al Trottoir, che beve una birra fissando solo all’apparenza il vuoto o la punta delle scarpe. Perché chi lo conosce sa che il Pinketts – ultimo titolo conosciuto La capanna dello zio rom (Mondadori), capitolo nove della saga di Lazzaro Santandrea, “un libro contro l’ignoranza di chi confonde rom, romeni, romagnoli e romantici”, ci dice – attraverso il vetro del bicchiere sa guardare Milano e chi la vive.

 

Metti il cibo, per esempio, che invaderà Milano per una settimana, sotto il cappello di Week&Food e TuttoFood. Secondo la cronaca di fine Novecento, Milano ha inventato l’happy hour e fors’anche gli chef stellati oltre ad accettare di buon grado di infilare la rucola ovunque. Secondo Pinketts: “Ha avuto soprattutto il demerito di diffondere l’abitudine al sushi, nei confronti del quale ho una preclusione assoluta. Il sushi è anche orribile linguisticamente: sentire le persone che dicono ‘andiamo a farci un sushi’ o ‘l’apericena con il sushi’ da scrittore mi fa schifo. Sono termini che ti tolgono l’appetito. Eppure il sushi ha imperversato negli ultimi quindici anni e tiene duro anche oggi. Sebbene”.

 

Ecco, ci mette un sebbene significa che sta per dire che tutto sommato c’è sempre il polpettone di mamma, che le mode mica bisogna seguirle per forza, perfino a Milano. E invece no: “Sebbene mi dicano che la tendenza sia già da qualche mese il poké hawaiano, il cui nome ricordo solo perché sembra faccia rima con saké e invece si pronuncia pok-hay”. Ora, spiace per il Pinketts – che ad aprire un suo locale ci ha anche provato, anni fa, si chiamava Todo Modo – ma alla fine il poké è sempre pesce crudo, sempre marinato nella salsa di soia. Magari però stavolta il nome è linguisticamente meno ripugnante, chissà. D’altra parte Pinketts nasce con la “gioventù cannibale”, quella di Aldo Nove, Niccolò Ammaniti, Tommaso Labranca, quindi non dovrebbe essere di bocca buona? “Un cannibale mangia legge e vede tutto, dall’horror al capolavoro, ma quando cerchi di equiparare il cibo a un periodo facendolo diventare un diktat, allora non ci sta”. Ormai però Milano è piena di ristoranti giapponesi e cinesi, li disertiamo? “Prima di tutto non mischiamoli: non insieme. Poi si potrebbe provare il resto del giapponese, che è superiore al sushi: al Sakeia, dietro Sant’Ambrogio, ad ogni piatto si abbina un sakè diverso. Se voglio riconciliarmi con l’idea del Giappone, vado lì”.

 

Pinketts appartiene a una scuola d’élite, quella di Samuel Johnson, che ha come motto: “Il mangiare da facchino il bere da gentiluomo”. A un’enoteca raffinata non resiste, ma a un ristorante fighetto che tracima di modelle passa davanti con indifferenza. Ed è uno dei pochi rimasti a difendere la “Milano da bere” e quel che ne resta: “Era interessante. Almeno era un concetto, un’idea, anche se forse di plastica. Oggi la maggior parte dei locali per mangiare e bere a Milano vengono aperti come investimento e non per amore del cibo. Hanno vita breve e la cucina è pessima. Così il cibo e lo chef diventano presto dozzinali come gli avventori”.

 

Il Pinketts, come tutti i milanesi, coltiva nostalgie, a metà della sua birra, che riguardano una città che preferisce rimanere nascosta, visto che qui è un attimo e la nostalgia diventa cool. Ripensa alla Brioschina, in cui si faceva cabaret e cucina povera davvero, come quella trentina, e lo chef si chiamava cuoco: “Negli anni 70 è arrivata la cucina cinese, negli 80 la cucina etnica: esterofilia controproducente, piuttosto che conservare una cucina milanese, Milano ha coltivato la cucina toscana”. E lo street food? “L’unico cibo di strada che sopporto sono i banchetti di hotdog nelle serie americane. Anche quando è raffinato sta al ristorante come lo street fighting alla boxe. Io quando mangio voglio essere servito e riverito, esercitare un impegno metafisico anche con i mondeghili”. A Milano cosa manca? “Non ci sono più michette da mangiare col salame, questo è il problema. Meno male che è previsto il ritorno del cavolfiore”.

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