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Il Competence Center del Poli: il mondo che cambia. Parla Taisch
Cinque anni fa partiva il “Competence Center” del Politecnico e tracciare un bilancio non è agevole, perché si tratta di mettere a fuoco un lustro caratterizzato da un’accelerazione tecnologica senza precedenti. Marco Taisch, dall’inizio alla guida della struttura di via Durando, illustra al Foglio luci e ombre di questa breve stagione ma si dice soddisfatto dei risultati ottenuti: “Abbiamo superato le aspettative, siamo riusciti a rendere comprensibili le tecnologie digitali traducendole in un linguaggio più semplice, accessibile a tutti. Con il tempo è cresciuto il numero di imprese intercettate, siamo arrivati a 3.500 che significa 5 mila persone cui abbiamo offerto varie tipologie di servizi: in particolare l’adozione dell’Intelligenza artificiale come strumento d’analisi. Altra cosa positiva, si è invertito il rapporto con le aziende: prima noi andavamo da loro, adesso è il contrario”. L’apertura al digitale e alle nuove tecnologie in generale, seppure con gradualità, non cancella le pecche tradizionali del sistema industriale che per il docente del Polimi sono essenzialmente due: “Un primo limite è rappresentato dal nanismo delle imprese, se vogliono crescere devono utilizzare l’Ai che è necessaria per le analisi dei dati di fabbrica, per lo studio del mercato. Deve cambiare anche l’approccio che non deve più essere semplicemente reattivo alle esigenze del business ma proattivo, strutturale e con maggiore attenzione alla ricerca che, in Italia, è inferiore a quella dei paesi Ue, per non parlare degli Usa”. L’altro freno è rappresentato dall’età anagrafica degli imprenditori, che sta aumentando in modo preoccupante: “Soffriamo l’inverno demografico, il ricambio generazionale è lento, restano ancora sacche di scetticismo nell’imprenditoria verso quelle novità imprescindibili se si vuole restare sul mercato, manca la sensibilità dei nativi digitali”.
Il discorso cambia quando si parla di Milano su cui Taisch spende parole di elogio poco consuete di questi tempi: “Stiamo parlando di una realtà che va oltre la città metropolitana, direi che tutta la Lombardia è connessa con Milano. Nel panorama nazionale questa città resta un faro, è un ecosistema di imprese con otto università che la rendono attrattiva per i giovani di tutta Italia: le teste migliori arrivano qui, c’è da essere orgogliosi pur sapendo che l’arrivo di tante intelligenze significa impoverire molto i territori, in particolare del sud”. Anche sul ruolo del pubblico arriva un giudizio da promozione: “Le politiche della Regione con i bandi che assegnano finanziamenti alle tecnologie digitali sono un contributo allo sviluppo, vedo bene poi le Zis (le Zone di innovazione e sviluppo) perché spingono le imprese ad aggregarsi, a fare massa critica e recuperare la dimensione della ricerca. È la strada giusta per favorire la concorrenza e l’acquisto di nuove intelligenze”.
I fondamentali, insomma, ci sono. In Lombardia sono presenti imprese e conoscenze che possono consentire un salto di qualità a patto di superare alcuni limiti, a cominciare da quegli 8 “competence center” distribuiti sul territorio nazionale oramai insufficienti: “Interagiamo con Bergamo e Pavia ma non basta, ci vorrebbe una struttura come la nostra in ogni provincia lombarda e dovrebbe aumentare il supporto finanziario. C’è poi una sovrastruttura burocratica che va snellita, Industria 5.0 si è inceppata perché ha posto alle imprese difficoltà nei calcoli e nelle previsioni di risparmio: peccato perché coniugare sostenibilità e digitale resta un obiettivo nobile”. Un ultimo punto, il più delicato, si chiama programmazione. Taisch non nasconde le sue perplessità su come sta procedendo il governo: “Non vedo una grande capacità di definire le politiche economiche, ci sono reazioni emotive, polemiche inutili, bisogna capire che la tecnologia viaggia ad altissima velocità per cui servirebbe un approccio più positivo, più innovativo”. E c’è anche il rischio di commettere un errore che potrebbe costare caro al nostro sistema produttivo: “Si punta troppo sul software, sul digitale staccato dalla manifattura dimenticando che noi siamo i secondi in Europa in questo settore, siamo un’economia di trasformazione. È centrale allora sostenere la formazione, non dobbiamo commettere l’errore di dematerializzare il nostro sistema economico: noi non siamo l’India, il made in Italy è fatto di prodotti, l’Ai va bene per conferire fisicità”.