Il presidente del Senato Pietro Grasso all’ultima Festa del cinema di Roma (foto LaPresse)

Profumo di Grasso

Marianna Rizzini
Se vince il No e Renzi non vorrà farsi rosolare? S’avanza un’ipotesi: incarico al presidente del Senato. I più previdenti tra i paladini del No si sono messi a guardare il Grasso da “società civile” (ma non lontano dalla linea Bersani).

Sì, No, No, Sì. Conta che ti riconta, nella grande e ufficiosa disamina preventiva dei voti che potrebbero fluttuare da una parte all’altra del grande confine referendario, c’è chi già col pensiero s’è buttato oltre. Oltre il responso dell’urna, oltre il dibattito esacerbato nel Pd (prima e dopo la conversione al Sì di Gianni Cuperlo), oltre le parole del premier Matteo Renzi, che alla Leopolda ha fatto capire che lui soltanto con il Sì andrà avanti, e che in caso contrario “non si farà rosolare”. E quel pensiero s’affaccia insistente all’ombra delle elezioni americane, complice il collettivo stupore per l’ascesa di Donald Trump, presso le schiere degli speranzosi del No, quelli che, sondaggi alla mano, tra un Beppe Grillo, un Renato Brunetta e un prof. Gustavo Zagrebelsky, quasi quasi cominciano a crederci. Metti caso che vinciamo, che facciamo?, si domandano i più previdenti tra i paladini del No, nelle sacche della tragicommedia che va sotto il nome “sinistra pd ulteriormente spaccata in bersaniani e cuperliani”.

 

Ed è lì che si profila il problema dei problemi: se vince il No e Renzi, come dice lui, “non vuol farsi rosolare”, chi si potrebbe far salire a Palazzo Chigi, nell’eventualità di un governo ponte pre-elettorale? E c’è subito l’intoppo: non può essere, questo fantomatico premier-ponte, uno del Pd renziano – anche se nel Pd per così dire “governarativo” ci sarebbe pure la fila, e intanto c’è tutto un osservare come si muove Dario Franceschini, ministro della Cultura che qualcuno vedrebbe pronto per il grande balzo, o come si muove, seppure in contumacia, Enrico Letta, professore all’estero, sì, ma uomo che non ha dimenticato e che – forse – sempre vendetta servita fredda attende. E addirittura, tra i corridoi di Montecitorio, si è fatto il nome di Andrea Orlando, ministro della Giustizia che nei giorni in cui le Toghe Rosse si muovono per il No, pur essendo ovviamente schierato per il Sì, va in missione tra le stesse Toghe rosse per dialogare, e per spiegare la Riforma, dando tuttavia ascolto alla campana più che mai antirenziana della magistratura. 

 

E allora, come in ogni empasse che si rispetti, tocca pensare ad altro, e ad altri, al nome che sia riconducibile al Pd ma anche no, nome di società civile, formula magica che tutto sembra risolvere in tempi di masse elettorali inferocite e di voto anti establishment su scala globale – e dunque chi se non lui, l’uomo che la società civile c’è l’ha scritta in fronte, essendo stato magistrato in terre dure di Sicilia e capo della Direzione nazionale Antimafia dopo Pier Luigi Vigna? Chi se non Pietro detto Piero Grasso, presidente del Senato e personalità che in qualche modo da premier-ponte è come se avesse sempre studiato, fin dai giorni in cui lasciò la magistratura per candidarsi – in quota società civile, appunto, nel Pd dell’allora segretario Pier Luigi Bersani? Ed ecco il Piero Grasso di questi giorni, quello che viene raccontato, tra governo e Parlamento, “sempre molto attento all’equidistanza”, cosa che certo appartiene al ruolo, ma che tornerebbe utile in caso di cambio di ruolo, e sempre naturalmente “in buonissimi rapporti con la presidenza della Repubblica”, cosa che anche questa appartiene al ruolo, ma che tornerebbe anche questa utile in caso di cambio di ruolo. E quando Pietro detto Piero Grasso partecipa a qualche convegno, o a seminari dal titolo “Il linguaggio giuridico nell’Europa delle pluralità. Lingua italiana e percorsi di produzione e circolazione del diritto dell’Unione Europea”, o alla presentazione di un libro di Costantino Visconti dal titolo “ ‘La mafia è dappertutto’. Falso”, c’è già una pletora di silenti osservatori che soppesano ogni suo sorriso e ogni sua parola, e ci vedono il ruolo, sì, ma anche già il possibile cambio di ruolo, in qualche modo reso più agevole da quel metodo felpato del “massimo movimento con minimo spostamento” che Pietrangelo Buttafuoco, anni fa, su questo giornale, parlando di Grasso, accostò al termine siciliano dell’“annacamento”, quel dondolare che non stanca, quel “tenersi nell’accortezza del passo sul terreno più scivoloso”.

 


Piero Grasso con Mario Monti (foto LaPresse)


 

Movimento che tanto aveva distinto Grasso dal suo “uguale e contrario” ex pm ed ex (fallimentare) candidato arancione Antonino Ingroia, colui che molto si era mosso e molto si era spostato – dal Guatemala andata e ritorno e poi sulla Penisola – sia da aspirante premier per gli indignados del giustizialismo sia da sconfitto aspirante premier (visto che gli indignados del giustizialismo si erano buttati in massa sul grillismo arrembante da Tsunami Tour). Il resto l’avevano fatto l’eloquio incredibile di Ingroia – altalentante nei toni e non proprio efficace nella resa retorica – e l’imitazione di Ingroia fatta da Maurizio Crozza, quella volta più vera del vero e dunque capace di sostituirsi al vero nell’immaginario collettivo. 

 

Ma Grasso no. Grasso, ex magistrato pure lui, ex nome illustre della lotta alla mafia pure lui, se n’era stato buono buono e zitto zitto (a parte i comizi in cui veniva innalzato dal Pd di Bersani a simbolo del Buono e Giusto che dall’Italia non politica arriva alla politica). E se n’era stato zitto zitto, Grasso, pure nei giorni precedenti alla sua elezione a presidente del Senato, quando, candidato come nome non divisivo dai bersaniani che speravano ancora nello “scouting” presso i Cinque Stelle, aveva creato non poche crisi di coscienza nei neofiti grillini alle prese con dilemma: “Ma davvero dobbiamo votare uno sconosciuto dei nostri o scheda bianca o possiamo votare il nostro mito antimafia Piero Grasso, visto che oltretutto la scelta è tra lui e Renato Schifani?”. E se la soluzione della Casaleggio Associati, alla fine, era stata la scheda bianca, chi tra i grillini aveva comunque votato Grasso-l’Icona si era dovuto sorbire il rimprovero tuonante di Beppe Grillo: “Non si può disattendere un contratto”, aveva detto l’ex comico, “chi lo ha firmato deve mantenere la parola data per una questione di coerenza e di rispetto verso gli elettori… La scelta tra Schifani e Grasso era una scelta impossibile. Si trattava di decidere tra la peste bubbonica e un forte raffreddore. La coppia senatoriale è stata decisa a tavolino dal pdl e pdmenoelle”. Con la minaccia di espulsione per i trasgressori, si era chiusa la vicenda. Ma Grasso, ormai eletto, aveva pronunciato un discorso di insediamento in cui il passato da “figurina” della società civile sporgeva in continuazione dal bordo istituzionale delle sue parole.

 

E in quel 16 marzo del 2013 il neopresidente del Senato alludeva alla sua vita di “lotta alla mafia in qualità di magistrato”. “Devo dirvi”, diceva un Grasso ispirato, “che dopo essermi dimesso dalla magistratura, pensavo di poter essere utile al Paese in forza della mia esperienza professionale nel mondo della giustizia. Ma la vita riserva sempre delle sorprese. Oggi interpreto questo mio nuovo e imprevisto impegno con spirito di servizio, per contribuire alla soluzione dei problemi di questo Paese. Ho sempre cercato verità e giustizia e continuerò a cercarle da questo scranno, auspicando che venga istituita una nuova Commissione d'inchiesta su tutte le stragi irrisolte del nostro Paese”. E gli applausi scrosciavano, e non si placavano quando un Grasso più che mai programmatico parlava di “giustizia e cambiamento”, e di “lavoro comune” per “rispondere con i fatti alle attese dei cittadini che chiedono anzitutto più giustizia sociale e più etica, nella consapevolezza che il lavoro è uno dei principali problemi di questo Paese”.

 

E si faceva anche in qualche modo ventriloquo della vox populi da profondo web, Grasso: “…Penso alle risposte che al più presto  – ed è già tardi – dovremo dare ai disoccupati, ai cassaintegrati, agli esodati, alle imprese, a tutti quei giovani che vivono una vita a metà, hanno prospettive incerte, lavori (chi ce l’ha) poco retribuiti. Quando riescono a uscire dalla casa dei genitori, vivono in appartamenti che non possono comprare, cercando di costruire una famiglia che non sanno come sostenere…”. Discorso molto “dal basso” per un presidente del Senato, ma senza dare troppo nell’occhio. Era “massimo movimento col minimo spostamento”, di nuovo, e a differenza del “gemello diverso” Antonio Ingroia che negli stessi giorni, dopo essersi molto mosso e molto spostato (durante la campagna elettorale per la non vittoriosa “Rivoluzione civile”), si era trovato a dover rinunciare al sogno politico, e a doversi molto prodigare per trovare la soluzione alternativa (sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Aosta, e poi commissario di Sicilia e-Servizi su nomina del presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta). 

 

Passato quel 16 marzo, la penombra senatoriale aveva nascosto il Piero Grasso presidente agli occhi delle folle per le quali, nel giorno dell’insediamento, Grasso si era fatto anche un po’ Papa (“penso all’insostenibile situazione delle carceri del nostro Paese, che hanno bisogno di interventi prioritari”, aveva detto, e “agli immigrati che cercano qui da noi una speranza di futuro…”). Ma con l’arrivo di Matteo Renzi al governo, nel febbraio del 2014, e con quella Riforma del Senato che cominciava ad aleggiare, Grasso, a intermittenza, si era affacciato sulla scena per dire cose non proprio neutre. E ora, nel momento in cui le ipotesi sul dopo voto referendario fluiscono e fioriscono, quelle parole lontane paiono in qualche modo un precedente. Motivo per cui, specie in alcuni ambienti del Nazareno non renziano, si ritorna con la mente al marzo 2014, quando Grasso si era espresso in termini che oggi si potrebbero definire bersaniani: “Il Senato resti eletto dai cittadini”; “… Italicum e abolizione del Senato insieme porterebbero a un sistema senza contrappesi”, con conseguente “rischio per la democrazia”.

 


Piero Grasso (foto LaPresse)


 

E si rimembrano i giorni dell’estate 2015 in cui Grasso, a una festa dell’Unità, parlando della riforma, aveva fatto capire che la sua linea non era esattamente quella governativa: “… Finora la maggioranza c’è stata…”, aveva detto, “… ma potrebbe non esserci se tutti mantengono le posizioni avanzate con gli emendamenti sull’articolo 2…”, e aveva anche suggerito di trovare “una soluzione politica”. Per non dire del settembre 2015, quando, con sommesso deflagrare di dissenso, Grasso se n’era uscito con la frase “la politica rispetti le istituzioni”, temporeggiando sull’emendabilità dell’articolo 2 del disegno di legge Boschi, e anche se Renzi, allora, aveva fatto capire che “soltanto il voto” sarebbe venuto dopo il suo governo, c’era già stata, nella minoranza pd, qualche allusione a Grasso come possibile volto alternativo per il “dopo”. 

 

Certo erano tutti piccoli segnali, indizi percepibili nell’istante difforme dagli altri felpatissimi istanti della presidenza del Senato firmata Grasso, così diversa dalle presidenze – ma della Camera – di Gianfranco Fini (mediatica e politica) e di Fausto Bertinotti (mediatica, politica e pop). Tuttavia il percorso, sottotraccia, non si interrompeva, e il 21 luglio del 2016 Grasso, durante la cerimonia del Ventaglio, lanciava la frase “la rappresentazione del prossimo referendum come giudizio universale” è “inopportuna, irrealistica e fuorviante”. In caso di vittoria del Sì, diceva, il Parlamento “avrebbe dovuto occuparsi” dell’approvazione della legge elettorale per l’elezione dei rappresentanti delle Regioni nel nuovo Senato. Così, di precedente in precedente, e sempre con minimo spostamento, Grasso è arrivato a incarnare la possibilità nel regno della scarsa probabilità (“tanto Renzi non si dimette”, ripetono gli insider).

 

Ma ormai Grasso non è più soltanto il Grasso che scriveva libri di pura iconicità civile come “Liberi tutti, lettera a un ragazzo che non vuole morire di mafia” (edizioni Sperling & Kupfer), e che, ospite nel salotto di Fazio Fazio a “Che tempo che fa?”, nel 2014, raccontava con dettagli cinematografici (Francis Ford Coppola, chissà se in attesa di Pif) la nascita della vocazione da magistrato anti criminalità organizzata. La prima percezione della mafia Grasso l’aveva avuta a dodici anni, quando aveva visto per terra “cadaveri in una pozza di sangue” e aveva trovato terribile “non capire il perché” di tutta quella violenza. Da lì la “spinta” verso la professione di magistrato, professione che gli pareva di somma “utilità sociale”. Non poteva certo pensare, il Grasso ragazzino, che al Grasso post magistrato sarebbe capitato di svolgere, da presidente del Senato, anche la funzione sociale di argine contro le superstizioni anti vaccini (due mesi fa ha detto “No” alla presentazione in Senato di un film complottista sui vaccini, con grande disappunto nell’area Cinque stelle ed ex Cinque stelle). Il resto, per ora, è altrui speranza e suggestione, ma non è detto che non sia anche sommessamente un’ambizione. 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.