Fino a febbraio al Barbican di Londra la mostra “The vulgar: fashion redefined”, centoventi fra abiti e accessori datati lungo un arco di tre secoli che “espongono lo scandalo del buon gusto”

Il trionfo del rutto

Fabiana Giacomotti
Una disfatta per i nice people, per i carini che davanti a Trump ancora si turano il naso. Il kitsch è un fenomeno vecchio come la storia; è internet ad avergli insufflato nuova energia e linfa. “In fondo è l’arte della felicità”, dice D’Agostino, e sarebbe dunque sbagliato liquidarne la potenza riducendolo alla sinonimia con il cattivo gusto.

L’aspetto irredimibile del partito dei nice people, i carini trasversali mondiali che hanno dieci cose nella lista delle loro eleganti esistenze e nessuna di queste contempla il sì a un muro anti-immigrati, è che non hanno ancora capito di essere stati spazzati via da un colossale rutto. Un burp cosmico che ha coperto il loro ciangottio brillante e cultivé in un pigolio sempre meno udibile e anche un po’ fastidioso, perché accidenti arriva il momento in cui bisognerebbe smetterla di ostinarsi a non comprendere, verstehen sie nicht, e accettare l’evidenza che la realtà è fatta di milioni di persone alle quali il ciuffo arancio del nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump piace. A cui, anzi, importerebbe zero pure se l’avesse di quella particolare sfumatura di viola che non copre i capelli bianchi ma che è l’impietoso segno della tinta fatta in casa, una prassi bimensile per molti dei suoi elettori del tutto sconosciuta al partito dei carini che ancora l’altra sera, in una di quelle cene modaiole cosmopolite in cui tutti parlano inglese con la scioltezza di chi ha frequentato scuole internazionali fin da piccolo e le signore hanno shatoosh firmati Coppola o Pier Giuseppe Moroni, si domandavano scandalizzati come fosse stato possibile votare uno “così volgare”, mancando ancora una volta, clamorosamente, il punto.

 

Nell’elezione di Trump, credo che l’estetica sia infatti al tempo stesso irrilevante e fondamentale. E’ irrilevante perché la maggioranza di chi l’ha votato, il cosiddetto “white trash” che forma il ventre molle dell’America da prima della Guerra di Secessione e di cui parla la storica Nancy Isenberg in un saggio uscito pochi mesi fa, ha priorità ben diverse rispetto a quelle rappresentate da una tinta cafona o da una crema colorante che si rapprende grottesca nei solchi nasolabiali, sebbene non ci siano dubbi che le signore in tuta sformata e tinta turchina intervistate dai tg mondiali per spiegare le ragioni di una vittoria che i sondaggisti non avevano proprio previsto, vorrebbero potersi permettere trattamenti estetici sofisticati, se appena riuscissero a recuperare un po’ di potere d’acquisto insieme con la chance di godere dei magri contributi previdenziali accumulati senza cedere neanche un centesimo ai più poveri di loro. Insistere sull’aspetto ridicolo di Trump o sulla sua rozzezza perdendo di vista la sua capacità retorica e la forza della sua mimica è stata una mossa frivola e controproducente: c’è tutto un mondo che non conosce gli aforismi di Oscar Wilde di cui i carini si riempiono la bocca e che trova il nonsense insopportabile, anzi morboso, perché non lo capisce.

 

Ma al tempo stesso il tema dell’estetica è fondamentale perché l’humus culturale e iconografico di Trump, che ai nice people fa schifo, è lo stesso che porta qualche milione di persone a scaricare quotidianamente le foto dell’account instagram di Kim Kardashian, godendo senza freni di quel culone da Venere ottentotta che nell’Ottocento veniva mostrato come fenomeno da circo. L’avvento del trumpismo, con i suoi capelli arancio e i suoi tessuti lucidi, demonio delle signore etno-chic che si chinano benedicenti e lontane sulle disgrazie altrui avvolte in lino grezzo e cashmere, era inscritto nel culto di massa dei reality show, di cui Trump è stato mattatore e infatti già fioriscono i meme sui destinatari dell’imperativo “you’re fired” che lancerà appena seduto nello Studio ovale.

 

La nuova epoca era cucita nella diffusione della moda fast e trash, cioè prendo tanto, pago poco, butto tutto subito e chissenefrega se inquino o se quello straccetto è stato cucito da una donna sottopagata nel Bangladesh perché tanto sono sottopagato anch’io ma qualcosina in meno e finché posso me la godo. Era segnato dal crollo verticale e mondiale della cosiddetta reading comprehension, la capacità di comprensione di un testo che è un allarme da anni nelle università di tutto l’occidente, benché ci arrivino sempre di meno, perché migliaia di persone credono di aver imparato il metodo della lettura veloce e di potersi risparmiare fatica e disciplina mentre invece stanno semplicemente guardando un testo, esattamente come fanno con il culone della Kardashian su Instagram, il tappeto rosso degli Emmy su twitter e le foto dell’amato bene senza mutande su snapchat. E sono contenti così. Non vogliono essere educati, non vogliono sentirsi chic e raffinati com’è invece aspirazione naturale dei carini, e lasciatemi dire che se l’essenza dello chic e del pensiero democratico sono i pompini promessi da Madonna a chi avesse votato Hillary Clinton, preferisco il ciuffo di The Donald o il vestituzzo della goffa Karen Pence, “second lady elected” come già recita Wikipedia.

 

In tutta questa storia, nulla mi ha fatto ridere più di quell’elettore democratico che si è presentato sotto la brownstone newyorkese della popstar esigendo il guiderdone, nessun passaggio escluso. E’ il boomerang estetico-populista perfetto per una classe, quella dei media e delle star hollywoodiane, che pensava di spostare voti e di influenzare coscienze e che invece ha dimostrato di contare meno degli snapchat che torme di publicist e pr postano quotidianamente dal loro account, ricco di milioni di follower ai quali, ormai è evidente e le società di ricerca farebbero bene a tenerne conto, nulla interessa delle loro intenzioni di voto e del loro impegno sociale perché bramano immagini di shopping, di intimità, di sesso. Facce, boccacce, smorfie. La gente guarda, non legge, ascolta di preferenza slogan perché sono più facili da ritwittare e, ribadisco, se la nozione dell’eleganza e del pensiero progressista sono Beyoncé e suo marito che si stringono a Hillary Clinton sul palco, non fa neanche tanto sorridere l’ipotesi, ventilata un minuto dopo l’elezione di Trump, che alla carica di prossimo presidente degli Stati Uniti possa aspirare il marito di Kim Kardashian, Kanye West, un cafone di straordinaria abilità propositiva le cui creazioni di moda hanno ricevuto l’imprimatur dello chic dal direttore di Vogue America, Anna Wintour.

 

A proposito, resta da capire come quella coraggiosa professionista in caschetto lucido e con centinaia di posti di lavoro da difendere riuscirà a orientare la barra su Melania Trump e le sue tutine bianche monospalla dopo aver messo in copertina “the extraordinary Hillary Clinton” vestita di dignitoso velluto burgundy a firma Oscar de la Renta per una pubblicizzatissima copertina natalizia e aver siglato un endorsement in suo favore non più di due settimane fa. Ma d’altronde, dai tempi di Diana Vreeland con Jacqueline Kennedy, le direttrici di Vogue America (e non solo loro) sono note per affiancare le first lady nelle scelte vestimentarie, e dopotutto sulla cover del mensile Melania finì già una prima volta con quell’abito da sposa da centomila dollari, poco elegantemente dichiarati ma comunque molto evidenti in un profluvio di volant e incrostazioni di perle. Nel lessico della nuova era Trump, lo chic è una nozione sparita, cancellata, così come quella di eleganza, che ormai suona non solo desueta, ma del tutto ridicola, a tratti perfino incomprensibile, più o meno come la definizione di “gusto” dopo la Rivoluzione francese e soprattutto adesso, in cui definisce magari un sommelier o un esperto di cucina, di sicuro non più un filosofo.

 


Melania e Donald Trump (foto LaPresse)


 

La cultura visiva, potentemente pop, voyeurista e scorreggiona di questi anni, che confonde l’eleganza con la noia e lo stile con il rigore rifuggendo entrambi, dello chic non sa che farsene, sempre voglia dire ancora qualcosa se sotto la definizione di chic finiscono pari merito Eddie Redmayne  e Daveed Diggs (vedasi penultimo numero di Vanity Fair Usa, un’ altra testata che si è trovata con un mazzo di insulti a Trump in mano, insieme con un clamoroso montaggio di sfottò). Sul tema dello chic, parecchi di noi hanno fatto scientemente confusione per anni, pressati da necessità pubblicitarie, politiche, anche personali sebbene non ci faccia onore riconoscerlo. Ora ne paghiamo il fio. Tutto il nostro pigolio tanto chic e così carino conta meno di zero, mentre per milioni di persone è facile immedesimarsi nei selfie con la bocca a culo di gallina del nuovo “president elected” che, osservava Tiziana Leone su tvzoom dopo la notte elettorale trascorsa all’Excelsior di Roma fra ghirlande di taffetà e cheesecake, “ricorda i selfie di Barbara D’Urso”. Dal palco delle presidenziali al camerino di Canale5, nessuna differenza, il trash è una livella. La gente che non compra Vogue né Vanity Fair e sull’account di Lady Gaga sbircia solo il nuovo video purché sia gratis ormai non si fa dare lezioni da nessuno, anzi vi sarete accorti che è una delle perifrasi più ricorrenti sul web.

 

Non gli immigrati esattamente come non vogliono l’arrosto di seitan e la dieta vegana che è argomento ricorrente nelle conversazioni dei carini; per restare in tema di evoluzione del lessico, avrete notato che da qualche anno a questa parte c’è sempre più gente che vi invita a “parlare come mangi”, e che se mangiate tenendo i gomiti attaccati al corpo vi dà del bastone di scopa. Di recente ho fatto un giro di chiamate fra gli editori della cosiddetta “varia”, Mondadori compresa, scoprendo che i manuali di bon ton, caposaldo del genere dall’Ottocento borghese, non hanno mai venduto meno di adesso. Anzi, non vengono proprio più pubblicati. A nessuno interessa più sapere come intestare la lettera al premier Matteo Renzi perché possono mandargli un tweet, Papa Francesco idem e può anche darsi che in risposta a una mail azzeccata il Santo Padre faccia un colpo di telefono, e già successo a tanti e nessuno interrompe più la comunicazione quando sente il centralino di Casa santa Marta pensando a uno scherzo.

 

Il trumpismo non è tanto il figlio della società del porno, come ha scritto qualcuno, quanto della società del porno autogeno, nella sua declinazione verbale di pérnemi, della vendita di se stessi. Blogger, facebook, instagram sono tutte declinazioni della messa in vendita di sé, e Chiara Ferragni con i suoi dieci milioni di euro di fatturato lo dimostra meglio di ogni altro. La società di Trump è ubiqua a continenti e nazioni, persino a sesso e genere nonostante temo che per le donne non si preparino momenti facili con uno come lui alla Casa Bianca, basta vedere lo sguardo ammansito di Melania sotto i due bandeaux. La società trasversale che ha seguito sghignazzando per mesi su YouTube le invettive sessiste di Trump pur non dovendolo, o potendolo, votare, è la società del nuovo volgare, e con questo non intendo volgarità, ma nuovo linguaggio, tensione verso altre forme espressive. Il volgare medievale di Dante. Il trumpismo è il collettore di una lingua nuova che è trash, è certamente fuori misura, è molto kitsch ma è anche terribilmente vitale, libera dalle pastoie del politicamente corretto. “Il kitsch consente una comunicazione più facile e più calda di un bon ton artificioso”, sostiene Roberto D’Agostino, che in questi giorni sta lanciando la seconda edizione del suo programma “Dago in the Sky”, sei nuove puntate su Sky Arte dopo le tre primaverili dove ci siamo tutti divertiti parecchio e non ce ne ha lasciata passare una né sull’arte né sulla moda.

 


 Roberto D’Agostino


 

Il kitsch è un fenomeno vecchio come la storia; è internet ad avergli insufflato nuova energia e linfa. “In fondo è l’arte della felicità”, dice D’Agostino, e sarebbe dunque sbagliato liquidarne la potenza riducendolo alla sinonimia con il cattivo gusto. Volgare è choc, talvolta brutto, spesso ridondante, ma è anche ricerca di soluzioni nuove e sfida al perbenismo. Non è un caso che proprio nel Regno Unito della Brexit sia appena stata aperta una mostra che esplora i confini di questa controversa categoria estetica: “The vulgar: fashion redefined”, aperta fino a febbraio 2017 al Barbican di Londra, centoventi fra abiti e accessori datati lungo un arco di tre secoli che “espongono lo scandalo del buon gusto”, come affermano, provocatori, i due curatori Judith Clark e Adam Phillips. Copie, opulenze, esibizionismo: il volgare è espressione culturale fortemente legata al tempo in cui si esprime, sebbene nemmeno adesso, tante signore che idolatrano il genio surrealista di Elsa Schiaparelli oserebbero indossarne il cappello-vagina.

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