Sigmar Polke (1941-2010), “Zirkusfiguren”, 2005

Il realismo capitalista di Sigmar Polke

Giuseppe Fantasia
Esoterico, irriverente, comico: l’universo parallelo dell'artista, ovvero la Pop Art in salsa tedesca. Il viaggio in Italia, Venezia e, fino al 6 novembre, una mostra a Palazzo Grassi.

Una macchina fotografica Pentax, una telecamera, pochissimi vestiti e nient’altro. Bastava questo a Sigmar Polke (nato nel 1941 a Oels, qundo la città era ancora tedesca, e morto a Colonia nel 2010) per i suoi viaggi “solo bagaglio a mano” – come recita il titolo di un fortunato e avvincente libro di Gabriele Romagnoli (Feltrinelli) – tutto concentrato e totalmente libero dal peso di ogni cosa, leggero, perché la leggerezza può essere un perfetto antidoto all’angoscia del nostro essere nel mondo. Nel suo lungo e frequente peregrinare, ci fu anche l’Italia che frequentò assiduamente per un ventennio, tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, e il tutto è testimoniato da innumerevoli foto e film in cui località conosciute e no del Belpaese sono immortalate assieme a dettagli del quotidiano e a momenti della vita privata che colpirono il suo sguardo. “L’Italia era per lui una via per ripercorrere le tracce dell’antico, per osservare i maestri, per riscoprire i materiali e le tecniche artistiche ormai estinte, un modo per guardare al passato e per parlare al presente”, ci ha spiegato Elena Geuna che assieme a Guy Tosatto è la curatrice della mostra che porta il nome di colui che è considerato uno dei più grandi artisti degli ultimi cinquant’anni, un uomo completamente dedito alla ricerca costante dell’immagine oltre che all’incessante trasformazione dei materiali compositivi ed espressivi.

 

“Sigmar Polke” – ospitata a Venezia fino al 6 novembre prossimo nell’elegante Palazzo Grassi, restaurato e riaperto dieci anni orsono dal generoso e attento François Pinault e dalla Fondazione di cui è presidente – è un chiaro omaggio all’universo di un artista che è riuscito a ribaltare le convenzioni dell’espressione artistica e a comprendere presto che il trattamento delle immagini avrebbe potuto offrire orizzonti inattesi e inesplorati. Si tratta di un percorso fuori dagli schemi, voluto per sigillare il rapporto che Polke aveva con Venezia, una sorta di percorso cronologico a ritroso che ci introduce nel suo mondo, caratterizzato da una libertà creativa che spazia dalla storia politica a quella dell’arte, dai principi matematici al volto di Eva Kant, eroina del fumetto Diabolik, un universo parallelo, dove immagini e riferimenti si compenetrano per generare nuovi significati. “Conoscendo bene i canoni della pittura – ha tenuto a precisare Pinault – non ha mai smesso di stravolgerne il senso e di sovvertirli, associandoli a materiali di ogni genere, inventando così un linguaggio che mette in discussione la percezione ed elude la realtà del mondo che crediamo di conoscere, avvalendosi di un senso dell’umorismo spesso devastante”.

 



Untitled (Quetta, Pakistan), Sigmar Polke. 1974-1978


 

Nel settantacinquesimo anniversario della sua nascita, quella veneziana è la prima esposizione antologica dell’intera opera di colui che è considerato l’erede di Max Ernst e che i più inseriscono nel genere della Pop Art, anche se lui, per tutta la vita, ha cercato di fuggire a ogni tipo di incasellamento, facendosi portatore di quel Realismo capitalista che si contrapponeva al Realismo socialista con la quotidianità squallida ma reale degli oggetti e delle situazioni. Negli anni Sessanta, con gli amici e colleghi Konrad Fisher-Luer e Gerhard Richter, intraprese una strada nell’arte mai codificata in scuole e movimenti, raccogliendo e rappresentando un’idea di arte viva, libera, metamorfica come la vita stessa. Le novanta opere in mostra (di cui sedici provenienti dalla collezione privata di Pinault) diventano così un viaggio negli spazi e nei tempi dell’artista che si incontrano e compenetrano tra loro, capaci di creare vocazioni esoteriche, cabalistiche e comiche insieme. Trent’anni fa, proprio a Venezia, vinse il Leone d’Oro alla XLII Biennale d’arte con Athanor, il “forno alchemico”, un ensemble stravagante grazie al quale mise a punto tecniche e motivi che sono stati al centro della sua ricerca successiva, mossa dalla inquietudine politica quanto dalla volontà di sperimentazione alchemica. “Con quel progetto Polke trovò un equilibrio tra la fascinazione per l’alchimia, il desiderio di sperimentazione e la necessità di essere attuali”, scrive la Geuna nel catalogo della mostra pubblicato da Marsilio. Non è certo un caso, quindi, che tutta l’esposizione a Palazzo Grassi sia stata immaginata come un omaggio ideale a quel progetto visionario, proponendosi di riunire alcuni dei cicli più significativi che in diverso modo hanno avuto origine da un contatto o da una relazione di Polke con la nostra penisola. Quelle tele sporcate da un velo di lacche colorate trasparenti ci ricordano la libertà di pittura come la libertà dell’artista stesso.

 

Una volta dentro, troverete ad accogliervi la monumentale Axial Age (2005-2007) – un’opera che racchiude tutte le tematiche dell’artista tedesco – sette enormi dipinti che vogliono rappresentare quella che il filosofo Karl Jaspers chiamava “l’età assiale”, ovvero quel momento eccezionale compreso tra l’800 e il 200 a. C. in cui l’essere umano ha posto le basi dello sviluppo successivo della storia universale. Durante questi secoli sarebbe avvenuta una trasformazione che ha fatto sì che l’uomo acquistasse coscienza di sé e della realtà più grande di cui fa parte grazie alle riflessioni di alcuni pensatori che hanno delineato i presupposti scientifici, filosofici e spirituali su cui si fonda l’esistenza umana. Un pensiero che a sua volta Polke fece suo ed è evidente in quest’opera in cui dissolve i parametri consueti di visione per condurci verso uno stadio successivo, verso una dimensione spirituale analoga a quella che ha caratterizzato proprio il periodo assiale di cui si parla. Salendo le scale del palazzo, spicca l’ironico Polizeischwein (1986) dove un uomo senza volto tiene al guinzaglio un maiale con un cappello tipico della polizia tedesca. Continuando, fino al primo piano, entrerete nel clou dell’esposizione e troverete altri stupefacenti esempi – come questo – dei suoi Rasterbilder, i dipinti a raster, ossia una tipologia di opere realizzate con la tecnica artistica della stampa a retino, utilizzata per quotidiani e giornali. Dopo aver selezionato dalla carta stampata illustrazioni con specifici significati politici e sociali, Polke ingrandiva il soggetto rappresentato in una moltitudine di punti che solo una volta ricomposti nella loro totalità, al momento della visione, erano capaci di generare l’immagine completa. “I miei Rasterbilder – disse – riguardano la riproduzione, gli errori di stampa e i tentativi di espressione personale; tendono a far sì che il modello scompaia e ciò che vi è dietro appaia e diventi qualcosa di originale e unico”.

 



Sigmar Polke, 'Untitled (Mönchengladbach 1983),' 1983, Setareh Gallery


 

“Il contrasto tra figure chiare e scure – ha fatto notare Tosatto – viene bilanciato per restituire così un’immagine personale, e non rappresentativa della fonte da cui è stata tratta”. Uno dei primi esempi, in tal senso, è dato da Die Schere (1982), in cui viene immortalato un medium nell’atto di far levitare un paio di forbici. Si continua con Amerikanisch-Mexicanische Grenze (1982), dove predominano il giallo e il nero, e ancora Flüchtende (1992), Man füttert die Hühner (2005), fino ai due imponenti (misurano tre metri per cinque) Die Trennuung des Mondes von den einzelden Planeten e Zirkusfiguren, entrambi del 2005, in cui il mondo del circo, con i suoi cavalli, trapezisti e clown, è rappresentato in tutta la sua bellezza e mistero. Tratti della poetica di Polke – come l’occulto e la magia – che ricorrono in diverse tipologie espressive, ad esempio in Sternhimmeltuch (1968), una sorta di autoritratto stellare in cui il nome dell’artista si compone unendo alcune costellazioni.

 

Guardando le opere di Polke, non percepirete nell’immediato cosa state osservando, perché quell’immagine appare sfocata ed è proprio in questo che risiede la sua specificità, cioè nella sua capacità di passare dal riconoscibile al non riconoscibile. Amava alterare la leggibilità dell’immagine utilizzando gli elementi chiave del suo linguaggio, come lo sfondo a tessuto pattern, l’effetto pixel, la stampa Xerox della pagina in movimento applicando, tra la superficie e l’occhio dello spettatore, una lente che dà una visione dell’immagine che cambia a seconda dello spostamento della prospettiva di chi guarda. Nei suoi lavori, infatti, gli errori tipografici sono riprodotti nella trasposizione su tela con sbavature di colore e imprecisioni nell’esecuzione, provocando inaspettate associazioni mentali.

 



Sigmar Polke, Hermes Trismegistos I-IV, 1995 De Pont Museum, Tilburg


 

Lo si percepisce, ad esempio, in Strahlen Sehen (2007) – che a sua volta trae spunto dal trattato di ottica di Johann Zahan, inventore di una particolare camera oscura e fine illustratore – con un’immagine fantastica in cui un drago in cielo è osservato da quattro figure. Nell’insieme, si ha come l’impressione che le cose che appaiono siano il visibile delle cose invisibili e che la vera sostanza – come diceva Eraclito – sia in realtà proprio il flusso. Audace, irriverente e ironico, Polke fu un grande collezionista di libri, di riviste, di immagini curiose e di scritte bizzarre che riguardano il mondo, quello stesso che poi ha deciso di restituirci “quasi sotto forma di rebus, di sciarada, ma a schema libero”, come ha detto la Geuna. “Trasformatore e contemporaneamente indagatore”, come lo definì Dierk Stemmler, curatore del padiglione della Repubblica federale tedesca alla famosa Biennale del 1986, con la sua arte è riuscito a condurci verso un universo parallelo in cui una moltitudine di immagini e di riferimenti a eventi noti del nostro mondo “si compenetrano per generare nuovi significati”. Come è stato giustamente fatto notare, potrebbe essere sufficiente una sola sua opera per rivelare il suo mondo come non sarebbero sufficienti mille suoi quadri per esaurirlo.