“Libero pensatore un po’ nichilista, usa la finezza intellettuale per discettare di corruzione e di etica, di fini che giustificano i mezzi e di poesia” (Aldo Grasso)

Camurri con vista

Alessandro Giuli
Ritratto innamorato di una tivù pop ma con molta bibliografia. Che cosa c’è dietro al successo di un filosofo dell’entusiasmo. Torinese naturale, fogliante epistolografo, fiorito scrittore e sbocciato in tivù. Impossibile non trattarlo con riguardo. Un cacciatore di stravaganze sublimi nella foresta del giornalismo italiano in cui deambulano analfabeti di ritorno.

Edoardo Camurri è uno di famiglia: fogliante naturale, torinese poco più che quarantenne, fiorito filosofo e sbocciato in radio e tivù. Impossibile non trattarlo con riguardo, dopo aver letto quel che dice di lui sul Corriere Aldo Grasso, e cioè la cassazione in materia di cultura televisiva, dalla benedizione per i suoi primi libri all’incoronazione dell’ultima sua trasmissione (“Roar”, su RaiTre, in contemporanea con la Mostra del Cinema di Venezia), con in mezzo un albo d’oro di critica benevola e a volte stupefatta. Ma le citazioni possono ancora aspettare. Camurri ha un segreto, un mistero senza nome di cui è aureolato. Non saprei svelarlo, in verità, posso soltanto adombrarlo attingendo a una minima aneddotica: il suo ingresso al Foglio, dove poi sarebbe stato ospite in varie fogge (e lo è ancora, se gli pare), come rubrichista finanche (“L’aeroplanino di carta”), fu propiziato da un’inclinazione epistolare cui l’Elefantino è sempre stato sensibile; capitò dunque al direttore di ricevere una letterina nella quale uno sconosciuto studente universitario militante radicale, devoto a Marco Pannella, lamentava l’assenza di un noto sinologo (Simon Leys) nel diorama di citazioni che accompagnava uno speciale sulla Cina maoista, se ne incapricciò, lo spinse a scriverne e di lì in avanti il rapporto s’infittì nell’amicizia.

 

Camurri è uno dei personaggi televisivi più popolarmente colti in circolazione, come un Pippo Baudo di Tubinga, e tuttavia questo dovrebbe renderlo semmai antipatico o per lo meno sospetto. Dov’è dunque il segreto? E’ calvo, curvilineo, comunica un insieme d’innocua bonomia. Ci stiamo avvicinando. Come ognuno di noi, Camurri è dotato di voce ma la voce è un veicolo potentissimo di persuasione, se la si sappia usare. Ecco, come la usa Camurri, la voce, pochissimi. E’ la voce di uno che ha saputo trasformare il senso del tragico in ludopatia massiva, però soave, con toni acuti da entusiasta, vale a dire posseduto da chissà quale dèmone di simpatia. Una delle cose più significative che ricordo pubblicata sul Foglio è in effetti quella paginata su Dioniso (il dio dell’entusiasmo!) e Cristo, ma così su due piedi non saprei giurare se questa pagina sia mai davvero uscita, se sia mai stata scritta; circostanza – questa – che sembra pescata da un autore caro a Edoardo, J. Rodolfo Wilcock, ermeneuta fra l’altro del “Finnegans Wake” joyciano, e come lui “cacciatore di stravaganti”.

 

Entusiasta, perciò, Camurri, di un entusiasmo tale che quando ha cominciato ad andare di moda il cinismo lui l’aveva già oltrepassato da sempre. Lo vedi, lo ascolti, lo leggi, dal modo in cui saluta. La prima volta, al Foglio, alcuni di noi quasi insolentirono quel suo “ciaooo” corale pieno di punti esclamativi, e invece il segreto era forse lì, autentico, strutturale, persuasivo e contagioso come il fragoroso grido “Evoè!” degli antichi baccanti. Più educato però. E su questa sua natura di pietra soffice Edoardo ha costruito una sovrastruttura culturale invidiabile, sempre ben riposta, utile a comando e figlia della necessità: “Non sono nato ricco”, mi dice a pranzo dopo aver scritto “evviva!” alla mia conferma dell’appuntamento via sms.
Attenzione però: entusiasta non significa anche buono nel senso più zuccheroso e appiccicaticcio.

 

Per il gusto della verità, nel suo libro “L’Italia dei miei stivali” (2007) Camurri è riuscito a inimicarsi per l’eternità “alcuni vecchi compagni e compagne del liceo” rivisti “per una specie di rimpatriata”: “Per quanto sia affezionato a loro, devo ammettere che sono il massimo della noia… questi amici pensano quello che è giusto pensare; si sono laureati in corso, votano progressista… si sono convertiti al cattolicesimo… fanno la spesa equosolidale… mangiano biologico, a Natale propongono regali di beneficenza; finanziano Emergency; bevono poco, fumano per niente; eccetera”. E quell’eccetera è anche peggio, per chi vada avanti nella lettura (roba di sesso triste e inibizioni).

 

Camurri dice anche che sta scrivendo un nuovo libro, mentre progetta altre trasmissioni tivù (in più c’è sempre RadioTre), ci troveremo dentro un banale poeta inglese settecentesco i cui versi sono divenuti irrinunciabili in manicomio, il cognato di Italo Svevo traduttore dell’I-Ching, pagine note e mondi letterari incogniti a queste collegati. Cacciatore di stravaganze sublimi, Camurri, nella foresta del giornalismo italiano dalla quale escono più spesso che no solo analfabeti di ritorno. Mi racconta di una sua recente visita a Emanuele Severino, comune lettura giovanile e rara presenza monumentale nella filosofia del secondo Dopoguerra.

 

Fa capire che ha colto lì, nella casa di un uomo a cui potresti rubare il portafogli senza che se ne accorga mentre parlate della tecnica come status destinale dell’umanità, la coincientia oppositorum: sul tavolo “L’essenza del nichilismo”, a un passo da lì una nerboruta domestica ucraina fiera delle sue tette. Gli rispondo che il prologo in cielo stava nella scena di “Tre uomini e una gamba” in cui Giacomino cerca di rimorchiarsi una tipa in autogrill maneggiando appunto “L’essenza del nichilismo” ma poi Giovanni urtandolo gli fa scivolare addosso un giornaletto porno: “Scusi, le è caduto questo…”.

 

Il cazzeggio filosofico è un dono del cielo. Camurri se ne inventò uno – sempre sul Foglio, un dialogo sul “pallone elastico” tra un suo anagramma (Mario da Rucerdo) e Tolstoj ambientato nelle Langhe – ricamato intorno ai guai giudiziari della Juventus di cui è tifoso. Perché “Edoardo Camurri è un giovane e brillante filosofo. Libero pensatore un po’ nichilista, usa la finezza intellettuale per discettare di corruzione e di etica, di fini che giustificano i mezzi e di poesia”, ha scritto Aldo Grasso nel 2008 per segnalare “L’Italia dei miei stivali”. E sempre a Grasso dobbiamo rivolgerci, noi consumatori televisivi di massa inadatti al giudizio critico, quando si tratta di programmi.

 

Quello di cui Edoardo è maggiormente innamorato, giunto alla vigilia della terza annualità, è “Viaggio nell’Italia del Giro” (RaiStoria): ancorato più alle tappe che alla gara, è un documentario storico-culturale fondato su storie, personaggi, intellettuali, artisti e tipi strani. E molti geometri. “Un esperimento di realtà aumentata”, ha sancito lui, dimostrando che “la cultura non è una materia circoscritta (libri, mostre, eventi, divulgazione storica, il ricordo del maestro Manzi…), un genere simile alla cronaca o allo sport. E’ un carattere delle cose, non una posa, non lo stato d’animo di chi si riempie la bocca con la parola ‘cultura’. La cultura non è superiorità antropologica, ma curiosità, vivacità, capacità di mettersi in discussione, intelligenza delle connessioni. Oggi si direbbe dei link. Tutto questo c’è” (Grasso).

 


Estratto di una delle puntate di “Viaggio nell’Italia del Giro” condotto da Edoardo Camurri per Rai Storia


 

E c’era anche, ma più quintessenziato, ne “I Grandi della letteratura italiana” (Rai 5), riletture motivanti di classici e canoni altrimenti musealizzati. Ma sempre lì torniamo, anzi arriviamo a “Roar”, luogo televisivo in cui la voce del conduttore – gli elementi soprasegmentali del discorso, direbbe il linguista che non sono – fende la noia nebbiosa dei registi e critici convitati e illumina una pazza scenografia plastificata che ricorda l’intrattenimento dei nati a metà dei Settanta, da “Goldrake” ai quiz tipo “Il pranzo è servito”. Fra i suoi ospiti più graditi c’era Mariarosa Mancuso, comune amicizia, permeabile soltanto al pettegolezzo benevolo: “Ho conosciuto Edoardo anni fa al Torino Film Festival, lui allora lo conoscevo per la rubrica che aveva sul Riformista, quella in cui giocava con i titoletti dei giornali. Ci siamo rivisti da soli a cena. E lui mi ha proclamato la lista dei suoi film preferiti: il primo era il film che più odiavo, il secondo mi ha fatto addormentare, il terzo peggio ancora. Gliel’ho detto, lui l’ha presa benissimo e ne abbiamo riso, è nata la mia amicizia con una delle persone più simpatiche e intelligenti conosciute”. Voglio almeno un titolo. “Eccolo: ‘Il Cavallo di Torino’ film di Béla Tarr e Agnes Hranitzky dove i protagonisti  bollono patate, poi si addormentano e poi ricominciano”.

 

Ho però il sospetto, e infatti davanti a lui mi taccio, che se parlassi di alto-basso e contaminazione dei generi Camurri estrarrebbe un revolver. Gli ho giusto sentito dire in un’intervista che “la cultura è un fatto aristocratico ed elitario, il pensiero più affascinante è sempre inattuale e solitario. Faccio un solo esempio: Giorgio Colli. Mentre il lavoro culturale, oggi, è mettere in bella forma luoghi comuni in modo compiaciuto, l’aristocrazia della cultura è invece un tesoro da preservare… il fine principale del lavoro culturale dovrebbe essere quello di raccontare idee interessanti, anche in modo divulgativo… ma il fine della cultura non è raggiungere un pubblico vasto, se poi il pubblico segue è un bene, sennò pazienza. Di grande filosofi ne nasce uno al secolo, le grandi opere verranno capite fra trent’anni, ma la cultura ragiona con una scala temporale che non è quella della quotidianità. Giorgio Colli era contemporaneo di Platone, le idee hanno un’altra storia… il paradosso, la sfida è modularle nel mezzo dei fatti quotidiani”.

 

Sembra il massimo dello snob e invece è soltanto James Joyce for Dummies. Il 28 gennaio scorso Edoardo scriveva così nel suo profilo Facebook: “Oggi esce il libro perfetto. E’ un grande giorno. E’ finalmente possibile leggere la traduzione che nel 1961 J. Rodolfo Wilcock fece di alcuni passi selezionati e commentati del Finnegans Wake di James Joyce… Lo ha pubblicato una piccola e raffinatissima casa editrice neonata, Giometti&Antonello di Macerata, che sta preparando un catalogo da leccarsi i baffi… Il tutto si apre con una mia prefazione, dove ho messo molte delle cose che amo. Che amo”. La parola totemica per comprendere il modo di fare tivù, facendosi apprezzare, congeniale a Camurri è “polisemicità”. Joyce ne è l’araldo prediletto, cespuglioso maestro di ulteriorità giocosa, intertestuale, balordamente colta e coltissimamente popolare.

 

“Quel che tu vedi negli dèi di cui spesso scrivi – mi dice – e cioè la loro continua, permanente riemersione nelle sfumature di una realtà che sembra profana, per esempio nel nome dei giorni della settimana, come tu hai osservato, io l’ho trovato nella capacità che ha Joyce d’inserire una molteplicità di senso nelle sue parole, di presentificare Amleto nel dire Maometto (Mohammed-MoHamlet), di esplorare davvero le Colonne d’Ercole del significato. Quando penso a un programma televisivo, so che la tivù è il mezzo espressivo meno frequentato dalle avanguardie, quasi immoto dalle sue origini; poi mi dico che, se Joyce e altri grandi maestri si sono spinti fino a questi limiti, tra noi e loro c’è uno spazio immenso e dissodato nel quale possiamo avventurarci e osare, perché grazie a loro abbiamo le spalle coperte”.

 

In modo più esplicito, intervistato di recente sul Piccolo di Trieste da Ellisabetta D’Erme (era ospite alla Joyce School), Camurri ha sostenuto che “l’aspetto psichedelico di ‘Finnegans Wake’ è stato d’enorme importanza per i lettori non accademici protagonisti della controcultura americana degli anni 60, come Timothy Leary, Terence McKenna, Philip K. Dick, o Marshall McLuhan, il quale – a chi gli chiedeva se avesse provato l’Lsd – rispondeva di no perché gli bastava leggere ‘Finnegans Wake’… un libro decisivo per portare avanti la rivoluzione culturale che ha dato vita al pc, ai tablet, al web, al mondo in cui siamo oggi e che deve molto ai quei pionieri, come loro devono molto a quel libro”. Ammirato, gli oppongo Carlos Castaneda, dal quale non saprei trarre alcunché di utile (per fortuna), figurarsi l’idea di un programma televisivo, ma che all’alba degli anni Settanta fu accarezzato da Furio Colombo sull’Espresso come “la registrazione di un momento-chiave, di una svolta, per una parte della cultura americana, quella che correva, da Woodstock a ‘Easy Rider’, da Kerouac a Ginsberg, verso un grande, festoso e tragico sogno d’infanzia”.

 

Per essere Edoardo Camurri e fare buona televisione, insomma, bisogna sperimentare lo stato del fanciullo lisergico – a lui è successo con una combinazione joyciana di scopolamina e vino Bordeaux, la volta in cui l’Ente Spaziale Europeo gli ha fatto provare l’assenza di gravità – ovvero una scia d’irrazionalismo puro, uno stato di grazia nel quale non fa contraddizione sentirsi contemporanei di Giorgio Colli, di Parmenide, Eraclito o altri sapienti, e compilare scalette in compagnia di performer nudi che sollevano barili di birra (li vedrete presto). Lo definirei uno sciamanesimo postmoderno, se l’aggettivazione non fosse ormai così stanca da farci sospirare “chi ci capisce è scemo”.

 

Qualcosa di simile proviene da Angelo Tonelli (Poesia e sapienza on the road a Paestum, domani e lunedì nell’area archeologica), discepolo di Colli, traduttore di Eraclito e altri misteriosofi dei quali non teme di leggere frammenti nei supermercati. Camurri l’ha incontrato lungo il suo “Viaggio nell’Italia del Giro”, Tappa 4. Chiavari-La Spezia, inframezzando fotogrammi animati da Carmelo Bene. Capo d’opera di enthusiasmòs, calco positivo di melancholìa. E questo pure è il segreto di Camurri.

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