Federico Faruffini, “Cola di Rienzo contempla le rovine di Roma”, 1855 (collezione privata)

Mostro capitolino

Michele Magno
C’era una volta il comune di Roma, con la “tirannide repubblicana”, le bande baronali e Cola di Rienzo. Finché la città non tornò al Papa.

Una “res monstruosa”, qualcosa di mostruoso: così definisce la realtà capitolina l’insigne giurista Bartolo da Sassoferrato nel “De regimine civitatis”. Sembra un’istantanea della Roma di oggi, mentre risale alla metà del Trecento. Sul banco degli accusati, la “tirannide repubblicana” e la condizione disastrosa della “sede del beato Pietro”. La “cattività avignonese” del papato (1305-1376) non era stata indolore: blocco dei massicci interventi edilizi promossi dai pontefici, diminuito afflusso di pellegrini, crollo della domanda di beni e servizi assicurata dalla Curia. Petrarca paragonava l’Urbe a un’anziana matrona, dal passato fascinoso ma spossata dalle lotte intestine. Boccaccio punterà il dito sulla sua decadenza artistica e culturale. Giovanni Villani sulla instabilità dei regimi popolari dell’epoca, eredi di quella “renovatio senatus” che aveva visto la luce duecento anni prima.

 

L’eminente medievista Jean-Claude Maire Vigueur ha scritto che a Roma “il comune nasce tardi, quando molte altre città italiane hanno da tempo conquistato la piena autonomia” (”Il comune romano”, in “Roma medievale”, a cura di André Vauchez, Laterza, 385 pp., 22 euro). Siamo nel 1143 e i romani sono in guerra contro Tivoli. Anche Innocenzo II voleva dare una lezione a una città che, durante i conflitti con l’impero, si era sempre schierata con gli antipapi. Il 7 luglio i tiburtini vengono sconfitti. Il pontefice li grazia, accontentandosi di un giuramento di fedeltà. La sua clemenza provoca però la ribellione dei romani, che irrompono nel Campidoglio dove danno danno vita a un’assemblea, il senato appunto, e decidono di riprendere le ostilità contro Tivoli. E’ l’atto fondativo del comune di Roma. Sotto l’influenza del chierico riformatore Arnaldo da Brescia (1090-1155), il senato reclama immediatamente la propria autonomia nei confronti delle prerogative episcopali. Il comune romano nasce, quindi, da una reazione alle pretese temporali della chiesa che affonda le sue radici nella riforma “gregoriana” (da Papa Gregorio VII, 1020?-1085). Separandosi dalla società romana attraverso la nomina di cardinali in prevalenza forestieri, e riservando solo a essi il diritto di eleggere il vicario di Cristo, la Santa Sede aveva avviato un processo di clericalizzazione del potere. Si era pertanto svincolata dall’invadenza delle grandi famiglie aristocratiche, ma aveva anche favorito l’emersione di un fronte laico antagonistico con la monarchia pontificia, che diventerà la forza motrice del movimento comunale.

 

Tra il 1191 e il 1238 il collegio dei senatori (una sessantina) cambia natura: diventa un organo esecutivo subordinato al collegio generale, espressione di tutti i cittadini dotati dei diritti civili, e preposto a un vasto apparato burocratico. Ai senatori spettava di vigilare sull’amministrazione della giustizia e delle risorse comunali, sulle operazioni militari, sulla manutenzione delle infrastrutture urbane. Fin dalla sua nascita, i trattati commerciali con Pisa (1151) e con Genova (1165) ci consegnano anche l’immagine di un comune intraprendente e pienamente inserito nel circuito internazionale dei traffici marittimi e mercantili. Del resto, già all’inizio del secolo si erano sviluppate una “borghesia degli affari” – mercanti, ma anche agenti di cambio e banchieri legati alla Curia – e le associazioni professionali, che gestivano le relazioni commerciali con i principali porti del Mediterraneo, i trasporti lungo il Tevere, lo sfruttamento delle saline e lo scarico delle merci sui moli cittadini. Un dinamismo economico che consente al comune, dopo aver annientato Tuscolo e Albano, di imporre la sua supremazia nel Lazio e in diverse province della Toscana e dell’Umbria. A metà del Duecento, Roma era una rispettabile potenza di rango sovraregionale.

 

Nato in chiave antipontificia, il senato tenta anche di sottoporre il clero alla sua giurisdizione, mettendo in discussione il principio dell’immunità giuridica e fiscale degli ecclesiastici. Fino alla metà del Tredicesimo secolo, tutta la storia del comune romano è scandita da contrasti e da patti con il papato che hanno valore di compromesso provvisorio, ai quali Ferdinand Gregorovius ha dedicato pagine magistrali. Mentre la pace di Costanza, firmata nel 1183 da Federico Barbarossa e dalla Lega Lombarda, aveva già sancito il definitivo riconoscimento imperiale delle libertà comunali. E’ in questi anni che si forma un’élite aristocratica ristretta: non più di una dozzina di famiglie che si erano arricchite facendo incetta dei beni ecclesiasici. Sono i cosiddetti “barones Urbis”. Da allora il gruppo sempre più potente dei lignaggi baronali si stacca dalla nobiltà “minore”, la quale continuava tuttavia a distinguersi nettamente dal resto della società per censo e stile di vita. Al comune dei “mercatores” e dei “milites” succede così il comune dei Savelli, degli Orsini, dei Colonna, dei Cenci, dei Caetani, solo per citare i nomi più noti. Forniti di cospicue proprietà nel Lazio, avevano investito il grosso delle proprie fortune nell’acquisizione di terre e castelli, come dimostra il caso dei Caetani. Dopo l’ascensione al cardinalato di Benedetto, il futuro Bonifacio VIII (1230-1303), il casato poteva vantare la proprietà di latifondi che dalla tomba di Cecilia Metella sull’Appia si estendevano fino ad Anagni e Sermoneta. Un espansionimo duramente avversato dalle altre famiglie patrizie e in particolare dai Colonna. La rappresaglia di Papa Caetani non si fa attendere: nel 1299 Palestrina, principale residenza dei Colonna, viene rasa al suolo.

 

Si apre così quella turbolenta fase della storia romana che è stata chiamata “anarchia dei baroni”. La “Cronica” dell’Anonimo Romano, il biografo di Cola di Rienzo (1313-1354), narra con dettagli raccapriccianti lo spettacolo desolante di una città e di una campagna devastate dai saccheggi e dalle violenze delle bande baronali. Nel 1342, nel corso della sua ambasciata ad Avignone, lo stesso Cola non aveva esitato a proclamare, al cospetto di Clemente VI 1291-1352), che “lli baroni de Roma so’ derobatori de strade: essi consiento li omicidi, le robbarie, li adulterii, onne male; essi voco che la loro citate iaccia desolata”. Erano insomma insaziabili e feroci predatori, simili ai “lioni, lopi e orzi”. Secondo Rigueur, il linguaggio ha toni biblici, ma il ritratto è attendibile. Per lo studioso francese la spiegazione delle atrocità baronali va cercata nel carattere del tutto peculiare di un ceto incurante della legalità perché disinteressato al commercio e alla finanza, in quanto ricavava la maggior parte del proprio denaro dalle proprietà fondiarie e immobiliari. Inoltre, assalire su una strada consolare un convoglio di mercanti fiorentini o depredare nel porto di Ostia una nave napoletana, non era considerato scandaloso da un ceto indifferente alla sicurezza dei trasporti. Per altro verso, sostituirsi alla giustizia capitolina nei quartieri dove stazionavano le sue clientele, alle quali forniva protezione e servizi essenziali (la stufa, il forno, la cisterna), era considerato naturale da un ceto i cui membri si fregiavano dell’appellativo di “magnificus vir”.

 

Nonostante il loro strapotere, i baroni non hanno però mai tentato di modificare l’assetto istituzionale del comune. D’altronde, la struttura topografica dei rioni e delle contrade consentiva ai clan signorili di controllare sia l’elezione dei delegati ai consigli sia il reclutamento delle milizie comunali. Nel 1328 sarà proprio un barone, Giacomo Colonna detto Sciarra, a guidarle in una clamorosa vittoria contro l’esercito guelfo capeggiato dal fratello del re di Napoli. Autore del famoso “oltraggio di Anagni” ai danni di Bonifacio VIII (1303) e esponente di spicco del partito filoimperiale, senatore autorevole e carismatico condottiero, la sua carriera politica è l’esempio più eclatante del doppiogiochismo di alcune figure della grande nobiltà romana. Pur non rinunciando a svolgere un ruolo cruciale nelle contese interne al suo ceto di appartenenza, Sciarra riesce a farsi apprezzare come “vertuosissimo barone” dal popolo, tanto da esserne nominato capitano nel 1327. L’istituto del capitanato risaliva al 1254, ed è coevo alla costituzione del consiglio dei “Tredici Buoniuomini” (rappresentanti dei tredici rioni della città) e alla riforma delle corporazioni delle arti e dei mestieri. Il loro artefice, il senatore Brancaleone degli Andalò, le aveva concepite per ampliare la partecipazione alla democrazia comunale dei ceti artigiani e mercantili.

 

“I Romani si levarono a romore e feciono popolo”, annota Villani nella “Nuova Cronica” alludendo ai sommovimenti sociali che instaurano i regimi popolari anticipati dalle riforme di Brancaleone. Dal 1305 al tribunato di Cola di Rienzo saranno almeno cinque. Nel cinquantennio che precede la brutale scomparsa della sua autonomia, il comune romano raggiunge il punto più alto della sua parabola, arginando l’arbitrio baronale e, dopo la parentesi “rienziana” (a chi legge non sfugga la prima vocale...), consolidando le sue istituzioni. A prima vista, l’ascesa di Cola al potere non differisce granché da quella dei leader popolari che lo avevano preceduto. Il 19 maggio 1347 i suoi partigiani si riuniscono sul Campidoglio, disarmano le guardie e convocano per il giorno successivo un parlamento di tutti gli “uomini liberi”. Come da copione, il parlamento l’indomani conferisce a Cola pieni poteri e il titolo di Tribuno. Beninteso, l’apparentemente fulmineo “colpo di stato” era il frutto di una lunga preparazione. Dopo il soggiorno ad Avignone, Cola era rientrato a Roma nel 1344. Si fa subito notare per le sue doti letterarie, sorprendenti nel figlio di un taverniere e di una lavandaia. Ben presto l’intellettuale di “basso lennaio” e un po’ lunatico, che amava leggere “li antiqui epitaffi” e recitare le opere di Tito Livio, come lo descrive l’Anonimo, manifesta la sua vera ambizione: cacciare i baroni e avviare un’era di giustizia e di pace. Il programma non era originale, diversamente dalla propaganda messa in campo per divulgarlo. Abilissimo organizzatore di grandiose cerimonie e di pittoresche processioni, le sue invenzioni scenografiche mandavano in visibilio la folla. La più celebre è quella della sua consacrazione a cavaliere dello Spirito Santo nella basilica di San Giovanni in Laterano (estate 1347), dove si immerse nella vasca in cui la tradizione voleva che fosse stato battezzato Costantino. Cola non era tuttavia un politico sprovveduto. Con i suoi discorsi si era guadanato il consenso degli artigiani come dei ceti rurali dell’Agro laziale. Ma tale consenso sarà assai effimero. Abbandonato da molti seguaci per il suo sfrenato radicalismo sociale e religioso, dopo pochi mesi cade senza combattere. Alla notizia di una sommossa nel quartiere dei Colonna, 15 dicembre 1347 si rifugia a Castel Sant’Angelo, a cavallo e rivestito delle insegne imperiali.

 

L’uscita di scena di Cola non detemina un arretramento del movimento popolare. Nel giro di pochi anni si riorganizza grazie anche al neutralismo di Innocenzo VI (1282-1362), ansioso di rientrare a Roma e preoccupato della rissosità dei baroni. Sono anni di profondo cambiamento della fisionomia istituzionale del comune. Nel 1358 una nuova magistratura, i Sette Riformatori (detti anche Rettori o Governatori), subentra al senatore e al capitano del popolo nel governo della città. Viene inoltre creata la Felice società dei balestrieri e pavesati: una milizia di tremila cittadini, metà armati di balestre e metà di uno scudo – il pavese – e di una spada. Balestrieri e pavesati non si sostitituiscono all’esercito comunale, i cui reparti di cavalieri e di fanti continuano a essere impiegati nella difesa delle mura aureliane dagli attacchi esterni. Sono piuttosto destinati a compiti di polizia, a espugnare i fortilizi dei baroni e a reprimere le loro scorrerie. Pur restando in sella per circa un quarantennio, il nuovo regime si reggeva su un equilibrio precario. Le lettere dei mercanti fiorentini rivelano infatti l’esistenza di due partiti che si contendevano il potere senza esclusione di colpi: i “populares” e i “nobiles”. A dispetto dei loro nomi, erano diretti dalla medesima élite di mercanti agiati e di “bovattieri” (gli imprenditori agricoli più benestanti). La scarsità delle fonti documentarie (gran parte dell’Archivio capitolino è stato distrutto dai lanzichenecchi nel 1527) non ha permesso di accertare le ragioni di questa spaccatura. Sappiamo però come Bonifacio IX (1350?-1404) l’abbia sfruttata per sbarazzarsi di una intollerabile alterità. Estate 1398: pur di impedire al capo dei “populares” Pietro Mattuzzi di riconquistare il potere con l’aiuto degli Orsini, i “nobiles” – spalleggiati dai Colonna – preferiscono consegnare la città nelle mani del pontefice con un atto formale di “resignatio pleni dominii”. Quando i capi dei “nobiles”, Pietro Sabba Giuliani e Pietro Cenci, tentano di reinsediare con la forza nelle loro funzioni i Banderesi (i comandanti della Felice Società), Bonifacio IX li fa giustiziare. Dopo due secoli e mezzo, il “libero comune” cedeva il passo definitivamente alla Roma papale.