Rafael Caro Quintero in una foto scattata prima del suo arresto per l’omicidio di un agente dell’antidroga americana, nel 1985

La reconquista

Eugenio Cau
Dopo 28 anni di prigione, uno dei più temuti narcotrafficanti messicani è tornato per riprendersi l’impero che fu del Chapo. Quando il grande capo è stato catturato per la seconda volta in poco più di un anno, dopo una delle sue spettacolari evasioni, Rafael Caro Quintero ha visto un’opportunità per riconquistare il suo impero dalle mani ammanettate di Guzmán.

Scena prima. Joaquín Guzmán Loera, detto “el Chapo”, gioca a scacchi su un tavolo di metallo. Nessuno sa se il figlio di contadini di Badiraguato, Sinaloa, contadino lui stesso prima di diventare il più potente boss della droga del mondo, sia un bravo giocatore, ma l’abilità strategica dimostrata in tre decenni passati a eludere le forze dell’ordine e creare un gigantesco impero fanno pensare che sì. Guzmán fa la sua mossa, sposta un pedone bianco o uno nero, ma non aspetta che il suo avversario risponda. Guzmán è chiuso da tre mesi in una cella d’isolamento di nove metri quadrati del carcere di massima sicurezza di Ciudad Juárez, vicino al confine tra Messico e Stati Uniti, la sua quinta cella dopo molti trasferimenti e soprattutto due evasioni spettacolari che hanno rischiato di far cadere altrettanti governi a Città del Messico. Gioca da solo. L’informazione secondo cui l’ex capo dei capi gioca a scacchi viene da Eduardo Guerrero Durán, capo del sistema carcerario messicano. Tra le altre attività di Guzmán ci sono la lettura del Don Chisciotte e di libri di autoaiuto di autori americani, un’ora di televisione al giorno, visite e telefonate sporadiche con i parenti. Una volta ogni tre giorni, di media, al gran capo è concessa un’oretta d’aria, intorno a guardie che lo sorvegliano ogni secondo. In due occasioni, ha detto Guerrero ai media, Guzmán ha ricevuto delle visite “intime” con delle “concubine”.

 

Non è la vita a cui il capo era abituato. Nella prigione di Puente Grande, negli anni Novanta, le sue feste con prigionieri fedeli e secondini corrotti erano diventate leggendarie. Guzmán si sta deprimendo, è dimagrito, non riesce a dormire ed è maltrattato, dicono i suoi avvocati. Perde perfino i capelli per lo stress. Guerrero risponde dicendo che su 65 giorni a Ciudad Juárez, il narcotrafficante è stato visitato da medici e infermieri ben 79 volte. Gli misurano la pressione tutti i giorni, è sano. Ma a Guzmán, è facile immaginare, non servono più concubine né più ore di televisione. Se si deprime e deperisce, è perché, chiuso nella sua cella di tre metri per tre, sa che sta perdendo le fila del suo impero, e che il commercio della droga sta andando avanti senza di lui.

 

Scena seconda. Un gruppo di motociclette corre tra le sterpaglie delle montagne sinaloensi, a nord-est del Messico. Sono seguite da due-tre camionette. In tutto sono centocinquanta uomini, armati e incappucciati. Si fermano a La Tuna, frazione misera del comune misero di Badiraguato, nelle vicinanze di una grande villa con i muri tinteggiati di rosso spento, una cattedrale in mezzo a una delle regioni più povere del Messico. Si fanno furtivi avvicinandosi. Tagliano le linee del telefono e di internet, poi fanno irruzione. Dentro trovano Consuelo Guzmán, ultraottantenne madre di undici figli, occhiali ovali, capelli grigi raccolti in un crocchio, la perfetta “abuelita” messicana. E’ la madre di Joaquín.

 

E’ metà giugno, e suo figlio è in prigione da quasi sette mesi, per la terza volta. Il suo potere non è più quello di una volta, ma nessuno pensava che qualcuno avrebbe avuto il coraggio, così presto, di prendere di mira i suoi parenti. Specie sua madre, specie a Badiraguato. Gli uomini prima avvertono gli occupanti delle casupole circostanti. Andate via, “ci sarà molto sangue”, dicono, secondo i media locali. Il loro primo obiettivo pare fosse un’altra villa, quella di Aureliano Guzmán Loera, fratello del Chapo. Ma la trovano vuota, e si dirigono a casa della signora Consuelo. Forse la strattonano, la spaventano, ma non le fanno del male. Chiedono che siano consegnate loro altre camionette per scappare e se ne vanno lasciando la vallata terrorizzata, la villa rossa saccheggiata e otto persone morte. Al centro del Triangolo Dorato, la zona dove si coltivano più sostanze illegali in tutto il Messico e in cui sono nati tutti i grandi narcotrafficanti della storia del paese, negli ultimi vent’anni Badiraguato è stata un’oasi in mezzo alla devastazione e alla violenza, e la villa rossa della signora Consuelo un santuario ancora più recluso. La zona era sotto la protezione del Chapo, il più potente di tutti, nessuno poteva torcere un capello a chi abitava lì. L’irruzione del commando armato ha dissacrato il santuario. Nei giorni successivi all’attacco, duecentocinquanta famiglie sono scappate da Badiraguato, e anche la signora Consuelo, alla fine, ha abbandonato la sua casa. E’ salita su un aereo privato, scortata da uomini armati, e nessuno sa più dov’è.

 


La cattura di el Chapo nel 2015 dopo la sua seconda evasione (foto LaPresse)


 

All’inizio si era pensato che il commando dell’attacco di giugno rispondesse agli ordini di Alfredo Beltrán Guzmán, leader del cartello dei Beltrán Leyva, un gruppo tradito dal Chapo dieci anni fa e che da allora gli ha dichiarato vendetta eterna. Qualche settimana dopo hanno iniziato ad apparire ipotesi nuove. Ad attaccare il feudo ormai cadente del Chapo era stato un fantasma.

 

Scena terza, flashback – 9 agosto 2013. Un uomo esce un po’ ricurvo dalle porte di metallo del carcere di massima sicurezza di Puente Grande. Ha sessant’anni e sente il peso degli ultimi ventotto trascorsi in carcere. Avrebbe dovuto passarci quasi tutta la vita, ma tre giudici di un tribunale minore di livello statale gli hanno appena fatto un regalo inaspettato, o forse atteso da tempo. Nel 1985 la giustizia messicana aveva comminato a Rafael Caro Quintero 199 anni di prigione per i crimini commessi, poi diventati 40, ma nel 2013 i tre giudici decidono che c’era stato un errore procedurale, il processo si sarebbe dovuto fare in un tribunale diverso, e ordinano la scarcerazione immediata del detenuto. Caro Quintero non fa in tempo a varcare i portoni di Puente Grande che da Città del Messico e da Washington arrivano reazioni orripilate: come si fa a lasciare libero un criminale così! Tempo cinque giorni, un tribunale messicano ha già emesso un nuovo ordine di cattura della massima urgenza. Anche gli americani fanno lo stesso, e Caro Quintero diventa un most wanted da entrambi i lati del confine. Washington annuncia una ricompensa di 5 milioni di dollari per chiunque aiuti a ricatturarlo, il massimo consentito. Ma Caro era già sparito un secondo dopo essere uscito dal carcere, e nessuno è più riuscito a rintracciarlo, come un fantasma.

 

Nel suo campo, Rafael Caro Quintero è stato un pioniere. Pioniere nel traffico della droga, con specializzazione nello smercio di cocaina e marijuana. Anche lui figlio di Badiraguato, ma proveniente dalla località di La Noria, non da La Tuna come Joaquín Guzmán, nel 1980 Caro Quintero fondò insieme a Miguel Ángel Féliz Gallardo, detto “il Padrino” (Caro Quintero era chiamato “El narco de narcos”: era un tempo in cui i soprannomi potevano ancora essere altisonanti; Chapo, al contrario, vuol dire “piccoletto” nel dialetto di Sinaloa) e a Ernesto Fonseca Carrillo il cartello di Guadalajara. Prima dei gruppi di narcos che oggi infestano il territorio messicano da nord a sud, prima delle faide interne e delle divisioni, il cartello di Guadalajara imperava quasi incontrastato. I tre erano stati i primi a investire su larga scala nel commercio di cocaina e a farsi partner dei potenti cartelli colombiani. Forse nessuna generazione di criminali è riuscita a ottenere tanto potere quanto quella di Caro Quintero, e al tempo stesso nessuna è crollata tanto rovinosamente. I leggendari criminali di Guadalajara, forse presi da delirio di onnipotenza, forse preda di un errore imperdonabile, nel 1985 rapirono e uccisero l’americano Enrique Camarena Salazar, agente della Dea, l’antidroga americana, insieme al pilota messicano Alfredo Zavala Avelar, dopo giorni di torture terrificanti. Secondo il resoconto ufficiale, fu Caro Quintero a dare a Camarena il colpo mortale. Enrique, detto Kike, era il primo agente statunitense a essere ucciso dai narcos messicani, e fu anche l’ultimo. Quello che successe dopo il ritrovamento di Camarena in un appartamento di Guadalajara è ancora una leggenda nera tra i narcos, e una lezione da mandare a memoria per i giovani sicari che iniziano il mestiere (tra questi, allora, c’era anche Joaquín Guzmán): qualsiasi cosa succeda, non si uccide un gringo. La vendetta della Dea distrusse il cartello di Guadalajara in pochi anni. Uno dopo l’altro, i grandi narcos furono arrestati o uccisi – Caro Quintero fu beccato due mesi dopo, in una casa in Costa Rica; il “Padrino” Félix Gallardo è stato incarcerato nel 1989. Il cartello di Guadalajara è finito con lui.

 

Epilogo. Era difficile immaginare che dopo 28 anni di prigione, problemi alla prostata iniziati solo a 58 anni e alcune interviste in cui ambiguamente si dichiarava pentito dei traffici illeciti, Rafael Caro Quintero, oggi 63 anni, potesse rappresentare una minaccia da evaso. Le rarissime foto scattate in prigione lo mostrano con gli occhi spenti, lo sguardo basso. In realtà, hanno detto alcuni esperti alla rivista messicana Sin Embargo, è probabile che Caro Quintero non abbia mai smesso, almeno in parte, di curare i suoi affari criminali anche dal carcere. Anche alcuni documenti della Dea lasciano sospettare che il suo potere non sia mai venuto meno del tutto. Documenti d’archivio recuparati dai media messicani mostrano come il narcotrafficante organizzasse feste sfrenate nei suoi primi anni di carcere, con musica e suonatori chiamati da fuori, e non si sono mai sopiti i sospetti che i tre giudici che lo hanno rilasciato nel 2013 avessero interesse a farlo, per così dire.

 

Caro Quintero ha impiegato tre anni per riemergere dall’ombra in cui era entrato. Tre anni, si può immaginare, in cui ha riannodato la rete dei suoi contatti, riallacciato i rapporti, e soprattutto ha assistito alla caduta di Joaquín Guzmán, che ai tempi della gloria del cartello di Guadalajara era poco più di uno stagista nel mondo del narco. Quando il grande capo è stato catturato per la seconda volta in poco più di un anno, dopo una delle sue spettacolari evasioni, Caro ha visto un’opportunità per riconquistare il suo impero dalle mani ammanettate di Guzmán. La conferma è arrivata all’inizio di questo mese dal procuratore dello stato di Chihuahua, uno degli snodi fondamentali per il traffico della droga e dominio incontrastato del cartello di Sinaloa, la creatura di Guzmán. Il procuratore, Jorge González, ha detto che “a livello nazionale è stata considerata la possibilità che uno dei narcotrafficanti più famosi del paese, Rafael Caro Quintero, potrebbe stare invadendo Chihuahua, e abbiamo informazioni che intende venire qui… per contendere al cartello di Sinaloa parte dell’attività criminale che qui conduce”. Come sempre accade, le informazioni del governo messicano provengono almeno in parte dalle agenzie americane. Mike Vigil, l’ex capo delle operazioni internazionali della Dea, ha detto ad Associated Press che l’esercito messicano ha ottenuto informazioni secondo cui Caro Quintero avrebbe stretto un’alleanza con il cartello dei Beltrán Leyva per conquistare Ciudad Juárez, nello stato di Chihuahua appunto, il gioiello della corona del confine nord e fino a pochi anni fa la città più pericolosa del mondo, e che alcune intercettazioni telefoniche lo confermerebbero.

 

Proprio a Ciudad Juárez, alcuni giorni fa, è apparsa una “narcomanta”, un lenzuolo con un messaggio mafioso spesso usato dai narcos per lanciare avvertimenti, in cui si annunciava la “pulizia” del confine e si minacciava di morte il procuratore González. La manta era firmata Rafael Caro Quintero. Ma l’affronto più grande sarebbe stato proprio il raid alla villa rossa di Badiraguato. Le forze di sicurezza messicane si sono convinte ormai che dietro all’attacco alla signora Consuelo Guzmán, attraverso i suoi alleati Beltrán Leyva, ci sia proprio Caro Quintero. Per i narcos, questa è una dichiarazione di guerra. Ci sono già alcuni segnali che una nuova guerra del narcotraffico stia per iniziare. Nel mese di maggio, a Ciudad Juárez, gli omicidi sono raddoppiati rispetto all’anno scorso, e solo nei primi sei giorni di luglio sono state uccise 16 persone. Joaquín Guzmán, a oggi, è chiuso in cella a perdere capelli. Chiedete a un messicano se evaderà di nuovo, per la terza volta, e questi vi risponderà di sì con certezza granitica. Per questo il governo di Città del Messico spera di estradarlo il prima possibile in America, dove un narco perde tutte le sue connessioni. Nel frattempo, un fantasma di un’epoca passata si è fatto avanti per reclamare la sua parte di impero. Nessuno è certo che Caro Quintero abbia le forze per farlo davvero. Sui media messicani, girano perfino voci che in realtà i due grandi capi si sarebbero alleati per combattere nemici comuni. Forse è wishful thinking. L’ultima guerra di narcotraffico non si è ancora davvero conclusa, iniziarne un’altra sarebbe una tragedia.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.