L’inventore del libro “tascabile”. Lorenzo Lotto, “Ritratto di Laura da Pola” (Milano, Pinacoteca di Brera), ora alla mostra “Aldo Manuzio. Il rinascimento di Venezia” alle Gallerie dell’Accademia

Lo Steve Jobs di Venezia

Maurizio Crippa

Aldo Manuzio, l’umanista che inventò i libri e il mestiere dell’editore e cambiò l’Europa. Il Macintosh rivoluzionò le nostre vite introducendo i font nel computer. Aldo fece lo stesso creando il corsivo e il “portatile”. Dice di lui Erasmo: “Aldo ha intenzione di costruire una biblioteca la quale non abbia altro confine che il mondo stesso”. Una mostra.

 

Nel capitolo cinquantacinquesimo di Moby Dick, che porta il titolo “Sulle raffigurazioni mostruose delle balene”, c’è un paragrafo che misteriosamente trasporta a Venezia: “Per quanto concerne la balena dei legatori, avvinta come un tralcio di vite al ceppo di un’àncora calante, e impresso in oro sul frontespizio e sul dorso di molti libri, vecchi e nuovi, si tratta di una creatura indubbiamente pittoresca, ma puramente fiabesca, a imitazione, suppongo, di analoghe figure presenti sui vasi antichi. Sebbene universalmente denominato delfino, nondimeno, io ritengo che questo pesce sia un tentativo di raffigurare una balena, perché tale era l’intenzione del legatore nell’introdurre quell’emblema la prima volta. Venne introdotto da un antico editore italiano, più o meno intorno al quindicesimo secolo, durante la Rinascita del Sapere a quei tempi, e fino a un periodo relativamente recente, era comune convinzione che i delfini fossero una specie di Leviatano”.

 

Quel “leviatano” abbarbicato a un’àncora, o meglio quel delfino, con disegnate ai lati del fusto le lettere “AL” e “DUS”, è il marchio di ogni libro stampato da Aldo Manuzio. A Cesare de Seta, grande storico dell’arte, quelle parole di Melville, quelle suggestioni baleniere di Melville, hanno suscitato “l’improvvisa percezione che Venezia, nelle sue iconografie più antiche, rassomigli a una balena”. Suggestione così forte da averlo indotto a partire da lì, dall’idea che “Venezia, nell’universo urbano, è Moby Dick”, e a usarla come il suo personale canale d’accesso alla Laguna nel suo bel libro Venezia e Moby Dick, da poco pubblicato da Neri Pozza. In copertina c’è una veduta del bacino di San Marco col Bucintoro del Canaletto, e nel cielo appena velato di grigio si staglia il marchio di Aldo Manuzio.

 

A un chilometro e un sestiere di distanza da quella veduta, alle Gallerie dell’Accademia, fino al 31 luglio c’è una mostra dedicata al più grande stampatore del Rinascimento, “Aldo Manuzio. Il rinascimento di Venezia”. Una delizia da vedere – non ci sono soltanto i suoi magnifici libri, come la mitica Hypnerotomachia Poliphili, il libro più misterioso e secondo alcuni studiosi il più bello che sia mai stato stampato – ma anche quadri di Giorgione, di Bellini e di tutto quanto il Rinascimento veneziano abbia prodotto. E che, in molti casi, e con fili spesso sottili, ha molto a che fare con il lavoro di Aldo Manuzio, Aldus, il primo editore della storia. L’Hypnerotomachia Poliphili, in ogni caso, vale da sola la visita. Attribuito al domenicano Francesco Colonna, stampato nel 1499, scritto in un volgare latineggiante mai visto né prima né dopo, è un caso unico nella storia del libro anche per la veste editoriale, 234 carte in folio con illustrazioni ricavate da 172 incisioni su legno di un artista rimasto ignoto.

 


Francesco Colonna, “Hypnerotomachia Poliphili” (Eton, The Provost and Fellows of Eton College)


 

Un tuffo nel passato, sì. Ma sorprendentemente moderno. Se è vero ciò che di Manuzio diceva cinque secoli fa il suo amico ed estimatore Erasmo da Rotterdam: “Aldo ha intenzione di costruire una biblioteca la quale non abbia altro confine che il mondo stesso”. Erasmo, il sommo umanista, riteneva che un’edizione delle sue opere fatta da Manuzio gli avrebbe procurato fama immortale, anche grazie ai magnifici caratteri corsivi inventati da Aldo, e si offrì di contribuire alla stampa con l’acquisto di duecento copie. Erasmo, che nel 1508 venne personalmente a Venezia, per curare con il suo editore la nuova edizione degli Adagia.

 

Il primo editore della storia, e per molto tempo il più moderno degli editori, questo raffinatissimo umanista che ha contribuito a fare di Venezia la capitale europea del libro – e lo rimarrà per un paio di secoli, sfruttando la sua condizione politica che la teneva al riparo dai rigori della Riforma e della Controriforma, e dalle loro guerre culturali – era tutt’altro che veneziano. Nato a Bassiano, in Ciociaria, formatosi a Roma, divenuto amico di Pico della Mirandola conosciuto forse a Ferrara, da cui assorbì l’ideale di una cultura enciclopedica e universale, arrivò in laguna già adulto, e quando era già un affermato professore di greco e latino. Ma è a Venezia, trasformatosi in imprenditore, che ha segnato la storia culturale dell’Europa così come oggi la conosciamo (o l’abbiamo conosciuta fino a ieri) molto più di tanti artisti o filosofi.

 

Le “vedute” di Cesare de Seta, tra arte, storia e sterminata memoria personale conducono lontano. E chissà se Venezia sia davvero, nella suggestione di Melville, la Balena bianca delle città, la città-destino. Ma ci fu un tempo, all’alba del Rinascimento, in cui Venezia fu il motore pensante della cultura europea, la sua fucina. Quando Aldo Manuzio vi arrivò, era già da decenni il maggiore centro tipografico d’Europa. Ma qualcosa di grande sarebbe da lì a poco avvenuto, per l’intuizione di un geniale imprenditore. Lui aggiunse l’eccellenza dei caratteri latini e greci, provò tra i primi, nel 1501, l’utilizzo dei caratteri ebraici per il progetto di una Bibbia poliglotta. La mostra dell’Accademia racconta di come il libro – il libro che nacque lì come oggetto moderno, immaginato per una diffusione potenzialmente infinita, non più solo prezioso manufatto da riservare ai pochissimi – cambiò il mondo. E perché avvenne proprio a Venezia.

 



 

Tra il 1494, quando apre la sua prima tipografia, e il 1515 Manuzio stampò un centinaio di edizioni. Libri di una raffinatezza che non si era mai conosciuta, che crearono quell’oggetto che per secoli abbiamo chiamato libro e soprattutto inventarono il pubblico dei lettori. L’artistocrazia e la borghesia intellettuale che avrebbero cambiato l’Europa. I classici greci e latini, e le grandi edizioni degli Autori in volgare. Dante, Petrarca. Per non stare ad aggiungere parole alla grande mole di studi che da decenni hanno ricostruito la figura e l’opera di questo genio culturale, basta affidarsi a quelle di Roberto Calasso, che in L’editoria come genere letterario scrive: “Se si vuol capire che cosa vuol essere una grande casa editrice, basta dare un’occhiata ai libri stampati da Aldo Manuzio”.

 

Perché Aldus “fu il primo a immaginare una casa editrice in termini di forma. […] La forma è decisiva nella scelta e nella sequenza dei titoli da pubblicare. Ma la forma riguarda anche i testi che accompagnano i libri, nonché il modo in cui il libro si presenta in quanto oggetto. Perciò include la copertina, la grafica, l’impaginazione, i caratteri, la carta. Aldo medesimo era solito scrivere sotto forma di lettere o epistulae quei brevi testi introduttivi che sono i precursori non solo di tutte le moderne introduzioni, pre e postfazioni, ma anche di tutti i risvolti di copertina, i testi di presentazione ai librai e le pubblicità di oggi”. Per il patron dell’Adelphi, “fu quello il primo accenno al fatto che tutti i libri pubblicati da un certo editore potevano essere visti come anelli di un’unica catena, o segmenti di un serpente di libri, o frammenti di un singolo libro formato da tutti i libri pubblicati da quell’editore”. Tra il finire del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento è una strabiliante idea di modernità, persino per una città cosmopolita e influente come Venezia.

 

La cura filologica, un’idea dell’oggetto che sa già di design, la ricerca di un’armonia classica nei caratteri di stampa, la creazione del corsvivo, usato per la prima volta nelle Epistole di santa Caterina da Siena, ma per le sole parole “Jesu dolce Jesu amore”. Esiste una letteratura sterminata anche sulla rivoluzione che Steve Jobs scatenò nei computer, e dunque nelle nostre vite di digitali (nativi o acquisiti) del Terzo millennio, introducendo per la prima volta la possibilità di utilizzare i più disparati font tipografici nei suoi Macintosh (un nome che oggi suona quasi arcano, come dire “incunabolo”). Sull’invenzione del corsivo da parte di Aldo Manuzio s’è scritto anche di più, ma del resto è stata anche quella una rivoluzione decisiva. L’idea gli venne dai manoscritte in uso nelle cancellerie italiane del secondo Quattrocento, dove si scriveva con caratteri precisi, rapidi, eleganti, riproducibili. Le “Aldine” sono oggetti strepitosi, basta guardare per una volta il magnifico volume in formato ottavo della Divina Commedia del 1502, stampato in corsivo e senza commenti. Un libro diremmo contemporaneo.

 

 

Perché l’altra grande rivoluzione, e non stiamo a fare paragoni persino banali con i nostri odierni strumenti digitali, è l’invenzione del formato in ottavo, il libro “tascabile”. Un’idea presa dai testi religiosi e devozionali che già esistevano, in piccolo formato per facilitarne l’uso quotidiano. Così dal laboratorio di Aldo a Venezia uscirono libri mai visti prima, le edizioni “portatili”. Già in un catalogo del 1503 sono definiti così: “Libelli portatiles in formam enchiridii”). Non erano libri “economici”, avevavo l’obiettivo di liberare la lettura dalla staticità degli studioli e delle biblioteche. Di finire nelle mani di un pubblico che si stava mettendo sempre di più in movimento. Sapeva benissimo, Manuzio, ciò che stava compiendo e dove volesse arrivare. Scrivendo al suo amico Marin Sanudo, storico e uomo politico veneziano per dedicargli un’edizione di Orazio, già nel 1501 Manuzio spiegava che un libro “portatile” consentiva la lettura nei momenti liberi dalle occupazioni politiche. Il primo “portatile” fu un Virgilio, nell’aprile 1501. Lo stesso anno stampò le Cose volgari di Petrarca e le Terze rime di Dante. Pietre miliari nella storia dell’editoria.

 

Il successo fu strepitoso. Nel 1502 il volume che conteneva le opere di Catullo, Tibullo e Properzio superò le tremila copie. Non era mai accaduto. La lettura passò dagli intellettuali di professione a un pubblico “letterato”, diventò quel momento intimo, diretto, che ha cambiato il nostro modo di pensare, persino di far funzionare la memoria. Aldo Manuzio muore il 6 febbraio 1515. Se n’era andato da poco, quando il 29 marzo 1516 Zaccaria Dolfin, nobile veneziano, propose al Collegio della Repubblica di mandare tutti i giudei di Venezia nel Ghetto Nuovo. Nel sestiere di Cannaregio. Era il rione delle concerie e delle fonderie, veniva chiamato il “Getto”, perché vi si faceva la gettata dei metalli. Gli ebrei stabilitisi lì dal nord Europa lo pronunciavano con la “G” dura: il nome che si diffuse in tutto il mondo.

 

 

 

Quest’anno si celebrano i cinquecento anni della fondazione del primo ghetto degli ebrei nel mondo. Quello dove Shakespeare ha ambientato il suo Mercante di Venezia, che sarà messo in scena per la prima volta lì, nel Campo del Ghetto nuovo, a fine luglio. Ma in quella complessa, stratificata realtà che fu il ghetto (è da poco uscito un eccellente libro della storica Donatella Calabi, Venezia e il ghetto. Cinquecento anni del “recinto degli ebrei”, Bollati Boringhieri) lo spirito di Aldo Manuzio rimase a lungo. Abituati più dei cristiani ai libri, ai giudei del ghetto era consentita l’attività della stampa. Aldo Manuzio riuscì soltanto a pubblicare nel 1501 una Introductio perbrevis ad Hebraicam linguam, il primo episodio veneziano di impiego di caratteri ebraici. Un anno dopo la sua morte, Daniel Bomberg di Anversa (che era cristiano), iniziò la storia dell’editoria ebraica a Venezia. In trent’anni stampò oltre duecento volumi in ebraico, che raggiunsero tutte le comunità ebraiche nel mondo, tra cui la prima Bibbia rabbinica e il Talmud babilonese e di Gerusalemme.

 

Non ci sarebbero certi soggetti mitologici di Bellini, certe rappresentazioni dell’Arcadia di Lotto o Tiziano se non ci fossero state le incisioni che illustrano i libri di Aldo. Un’arte nuova e una cultura nuova. Gli ultimi quadri in mostra,  il Ritratto di Laura da Pola di Lorenzo Lotto o il Ritratto di Jacopo Sannazaro di Tiziano, sono ritratti di personaggi moderni, con il loro tascabile, il loro libro “portatile” in mano. E’ per questo che il ruolo di Manuzio in Europa è paragonabile a quello di grandi umanisti. Gutenberg aveva inventato l’hardware, lui inventò il software di una cultura senza più nessun limite geografico. Se dovessimo insistere nel paragone, tra cinquecento anni non ci ricorderemo i nomi degli uomini e dei presidenti che fecero la globalizzazione economica, ma ci ricorderemo di Steve Jobs (del resto cominciò anche lui dallo studio della calligrafia antica, no?). Ciò che secoli dopo fu chiamata la Galassia Gutenberg, era iniziata in realtà con il marchio di Aldo Manuzio.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"