Accantonato il ruolo di buffone, Morgante assume un sussiego marziale: a sinistra, con una lanterna, nell’affresco di Vasari che commemora la presa del forte di Siena (Firenze, Palazzo Vecchio)

Il nano dei Medici

Marco Bona Castellotti
“Tanto brutto che pareva bello”, temibile e divertente: ecco Morgante, il preferito dagli artisti del ’500. Anche lui nella mostra fiorentina su “Buffoni, villani e giocatori”. Si chiamava Braccio di Bartolo, gli avevano affibbiato per burla il nome di un gigante. Raffigurato in tele, arazzi, marmi.

Nell’Europa del Seicento non esiste corte più gremita di buffoni e nani di quella di Filippo IV a Madrid. Né vi fu pittore più intensamente rispettoso e umanamente attento a celebrarli, senza mai degradarli a fenomeno abnorme, di Diego Velázquez. Intorno al 1630 eseguì il ritratto a figura intera del “bufòn” Calabacillas, strabico, sorridente e con una “girella di carta”, una banderuola infantile, tenuta nella sinistra come uno scettro e simile all’esemplare che compare nella tavola dell’“Iconologia” di Cesare Ripa simboleggiante la pazzia. Calabacillas non era pazzo, anche se taluni l’avrebbero sospettato, anzi, secondo i referti psicoanalitici del medico Jeronimo Moraga, che si dedicò a studiare la psiche dei personaggi del mondo di Velázquez, il buffone era affetto da rachitismo ma dotato di un’intelligenza “normal”. Il soprannome Calabacillas, che potremmo tradurre zucchetta, testolina vuota o capo scarico, corrisponde alle zucche che fiancheggiano il buffone, ormai adulto, in un altro sublime quadro del pittore di Siviglia, dove Calabacillas è accoccolato a terra, allegro e contento dell’abbondante razione di carne e di pesce quotidiana, e della mula e lettiga garantitegli dalla sua professione. Entro le mura della corte degli Asburgo di Spagna, incontriamo nani del “tipo melanconico”, che non ridono e sono solitari, come Sebastián de Mora e Francisco Lezcano, inseparabile compagno del principe Balthasar Carlos. Lezcano era a servizio presso un alto dignitario che aveva pugnalato a morte la moglie, perché si era concessa al nano Diego de Acedo detto “el primo”, ritratto da Velázquez seduto, con l’occhio scintillante da mandrillo, in abito di velluto e cappello, macchie di nero che contrastano con il bianco delle pagine di un registro in foglio, su cui il re apponeva la firma ed “el primo” aveva il compito di controllarla.

 

Buffoni e nani non erano ritenuti oggetti d’arredo, bensì facevano parte integrante della vita di corte. E’ la ragione dell’attenzione di Velázquez, frutto di una sensibilità realistica, mista di simpatia e commiserazione. Ne “Las Meninas” egli inserisce nell’enigmatico ambiente in cui l’infanta Margarita e le dilette damigelle d’onore paiono recitare, la nana Maribarbola, imperitura nel suo radicarsi nella memoria di chiunque abbia veduto “Las Meninas” dal vero, e Nicolasito, nanetto di proporzioni così perfette da somigliare a un eroe olimpico in miniatura, intento a molcere il magnifico molosso, calcandogli col piede la groppa per farlo godere. Maribarbola e Nicolasito Pertusato – cognome che suggerisce una provenienza milanese – non sono comprimari e il fatto di essere protagonisti di quel ritratto plurimo li eleva concettualmente al grado di emblemi dello status di famigliarità e dimestichezza accordatogli da principi e sovrani. Dal cattolicissimo Filippo IV d’Asburgo in giù, indietreggiando di un quasi un secolo, entriamo nella corte del laicissimo Cosimo I de’ Medici, duca e poi granduca di Firenze, e c’imbattiamo nel più famoso nano italiano del Cinquecento, raffigurato in arazzi, tele, stampe, marmi e bronzi di produzione fiorentina. Si chiamava Braccio di Bartolo. Per essere bassissimo di statura, gli era stato burlescamente affibbiato il soprannome di un gigante: Morgante. A distanza di cinque anni dalla mostra monografica di Bronzino, autore del più singolare ritratto del nano Morgante, questo inquietante personaggio torna alla ribalta in una rassegna dal titolo “Buffoni, villani e giocatori alla corte dei Medici” (Firenze, Uffizi, Pitti, giardino di Boboli, sino all’11 settembre). Nel catalogo (Sillabe) è contenuto un capitolo di Detlef Heikamp che per la ricchezza dei particolari storici, il respiro del giudizio critico, l’assenza di toni auto celebrativi o polemici o competitivi, è fra i migliori che mi sia occorso di leggere negli ultimi tempi.  

 


Agnolo Bronzino, “Doppio ritratto del nano Morgante”, 1564 (Firenze, Uffizi)


 

Braccio di Bartolo era nato nei primi decenni del XVI secolo in un paese nei dintorni di Bologna. Venne “ceduto” dai genitori per tema che il bambino malato fosse destinato a una vita difficile. Morì nel 1580 a Firenze di “mal castrone”, sorta di influenza cinquecentesca, e all’occasione fu composto un epitaffio che oscilla fra l’ammirazione e il dileggio: “Un nano ch’ebbe nome di gigante giace sepolto in questo ricco avello, ch’ebbe natura, colore e sembiante d’uomo, di bestia, di paese e d’uccello; fu così contraffatto e stravagante e tanto brutto che pareva bello; onde e con ragione si potrà dirgli tu sol te stesso e null’altro somigli”. Un madrigale post mortem lo descrive così: “Il più saggio ed accorto, il più raro sovrano buffòn che mai vedesse o sole o stella”, “parlando e disputando, e ballando e cantando, ridendo e sospirando, piangendo e bestemmiando, ma sopra ogni altra cosa disputando, ci dava tanta e sì fatta dolcezza, che per la tenerezza ne rallegrava in guisa ch’ognun si scompisciava per le risa”. Odiato e tampinato dall’entourage della corte medicea, in una Firenze arroventata da maldicenze, soffiate, calunnie, laide adulazioni e antagonismi, Morgante era il depositario delle confidenze del duca Cosimo I. Ciò lo rendeva temibile. Allorché ebbe un diverbio con il comandante della milizia ducale, pur avendo costui tentato di sbarazzarsi di quel “porcho del nano che mi fa male augurio”, Morgante ebbe la meglio e il comandante fu costretto a fare i bagagli. Sarà pur stato capace di “dolcezza e tenerezza”, ma quando, indossando solo un paio di brache “che gli coprivano le vergogne”, si azzuffò con una scimmia al cospetto di Cosimo e della duchessa, dopo aver “stroppiato” la povera bestia, se non fosse intervenuto il duca in persona a chiederne la grazia, l’avrebbe stecchita. Vasari, in una lettera indirizzata a Giovanni Caccini, racconta di peggio: “Da qua [Firenze] non ho altre nove, se non che il Nano ha ammazzato il suo servitore e si è fuggito, né l’ànno trovato ancora”. E’ probabile che la notizia fosse passata sotto silenzio grazie alla copertura di Cosimo, non disposto a rinunciare alla compagnia dell’inseparabile Morgante.

 

Durante la sceneggiata allestita lungo l’Arno, protagonista principale il nano in groppa a un asino,“a faccia indietro”, con un cartiglio appeso al collo che lo accusava di adulterio, assistette gran “quantità de popolo”, convenuta a scompisciarsi dalle risa, mentre sua altezza, reduce da un’infermità e desideroso di svagarsi, “ne pigliava un gusto meraviglioso”. A Morgante Cosimo concedeva licenze esclusive, poiché lo considerava per dir così un prodigio, superficiale e debole di mente quindi scusabile. Se lo teneva vicino, tanto nei momenti ludici che nelle circostanze ufficiali, come la solenne incoronazione ducale che compare sul basamento del monumento equestre di bronzo in piazza della Signoria, opera di Giambologna. Morgante è lì, con in braccio un cagnolino, ma viene preso da una guardia per l’orecchio e allontanato per scongiurare che scateni il botolo durante la cerimonia e ne turbi la solennità. Nel ritratto di marmo a tutto tondo, scolpito da Valerio Cioli per il giardino di Boboli, il nano è nudo, di una stazza bacchica, a cavalcioni di una testuggine, col braccio levato in un gesto che, nell’iconografia classica, è di norma attribuito alle divinità dell’Olimpo. In altri casi “Morgantaccio” s’insinua di soppiatto in composizioni affollatissime. Lo vediamo nel bell’affresco vasariano nel salone dei Cinquecento in palazzo Vecchio che commemora la presa del forte di Siena. La battaglia si combatté di notte e nel groviglio di corpi e di cavalli e nel baluginio della luce che profila le figure, in primo piano a sinistra sgambetta un omuncolo in armatura. Regge una lanterna e un elmo. Procede a passo veloce ed è preoccupato dal portare in salvo l’elmo. Accantonato il ruolo di buffone, Morgante assume un sussiego marziale. Ogni dettaglio è così veridico che la sua partecipazione all’assalto di Siena, per Heikamp, potrebbe possedere un fondamento storico. Sarebbe pertanto la conferma dell’indomito coraggio manifestato dal nano nelle cacce al cinghiale, al lupo e all’orso.

 

Il coraggio, il “fegato da tigre”, l’astuzia, il fiuto nel cogliere situazioni e umori, sono elementi che negano veridicità all’ipotesi che il ritratto di Morgante, nudo davanti e dietro, compiuto da Bronzino nel 1564 per Cosimo de’ Medici, sottintenda la benché minima canzonatura, al massimo vi si può trovare una nota di umorismo burlesco, rarissima nell’arte dell’insigne pittore fiorentino poco ironico. La tela è dipinta sui due lati. Al diritto Morgante è ritratto in costume adamitico, con un piccolo corteggio di pennuti, un gufo tenuto per le zampe, una ghiandaia dalle piume grigio-azzurre, di esecuzione stanca e rigida che pare di plastica, due farfalle della specie chiamata monarca, diffuse nelle campagne fiorentine. Svolazzano nella medesima direzione. Una si libra ad ali spianate, l’altra è fissata dal pennello di Bronzino esattamente nell’istante in cui passa dinanzi alle vergogne morgantesche e le nasconde. L’espressione che si disegna sul volto di Morgante tradisce una fierezza vagamente melanconica. Sull’altro lato il nano è di spalle, con uno sguardo difficile a decifrarsi: sospettoso, quasi angosciato, irato e iroso, con la bocca aperta come stesse proferendo queste parole: “State alla larga, maledetti”. Mi chiedo se, per i tratti fisionomici di Morgante che si gira verso di noi, Bronzino non abbia preso a modello una maschera della tragedia romana. In ogni caso, questo sgradevole capolavoro fu concepito per suscitare la curiosità, non il riso. E’ un ritratto più tragico che comico. Sul retro le farfalle sono volate via, testimoniando che vi è rappresentato il momento successivo a quello della partenza per la caccia. Morgante tiene in mano un trofeo di uccellini pronti a finire allo spiedo. La civetta appollaiata è allusiva alla tecnica della cattura degli uccelli piccoli, tordi e passeri che si adunano intorno al pennuto dagli occhi sgranati, rimangono ipnotizzati e immobili, fintantoché il cacciatore li cattura col vischio e i lacci. Nel doppio ritratto di Morgante cacciatore si nasconde qualche sottinteso che ci sfugge? Sefy Hendler scrive che nella civetta uno studioso ha ravvisato un riferimento alla sodomia (perché attira i passeri?). Bisogna stare all’erta e non farsi incantare da strane fantasie.

 

Il quadro fu confinato nei depositi degli Uffizi in quanto ritenuto una copia. Berenson invece era convinto che fosse originale. Il recente restauro ha rimosso la ghirlanda vegetale che cingeva i fianchi del nano, il rigoglioso casco di pampini che lo incoronava e il bicchiere di vetro, colmo di vinello, che l’ignoto pittore-censore aveva aggiunto per travestire il nano da Bacco. Rimosse le sovrastrutture pudibonde, sono riemerse la farfalle monarca e tutto il resto, i dubbi circa l’autografia sono stati fugati, ma rimane insoluto l’enigma del significato ultimo di questo quadro. E’ stato ampiamente discusso se il double face possa rientrare nella dotta disputa sul paragone e il primato delle arti, pittura e scultura, condotta da Benedetto Varchi a Firenze in quegli anni. Il Bronzino vi avrebbe partecipato con il singolare esperimento di Morgante fronte e retro, dimostrando come non solo la scultura, ma anche la pittura sia in grado di rendere la figura umana fruibile da più angolature e di scandire la duplice fase di una storia nel suo svolgersi. A giudizio di Heikamp si tratterrebbe invece di un’invenzione “legata alla scienza naturale”.
Il “Nano Morgante” è comunque un eccellente esempio di virtuosismo, un artificio da ascriversi alla poetica figurativa del manierismo. Bronzino ha voluto esibire il proprio talento ricorrendo a un verismo minuzioso che non ha niente a che vedere con la potenza di sintesi naturalistica di Velázquez. L’effetto di stupore prodotto dal Morgante è innegabile; ciononostante lo sguardo del Bronzino potrebbe sembrare, lucido, freddo e distaccato, se non fosse per quell’ombra oscura che si stende sul volto del nano buffone, indice di disagio represso.

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