Il varo di una nave nei cantieri Ansaldo nel 1923. Nel marzo di quell’anno la società genovese cadde in dissesto, dopo aver chiuso l’esercizio del 1922 con un deficit di 331 milioni di lire

Il prezzo della pace

Guido Pescosolido
La Prima guerra mondiale non impose soltanto un costo in termini di vite. Le ristrutturazioni produttive e tecniche, la ridefinizione delle gerarchie societarie, i rapporti tra banca e industria, e soprattutto quelli tra queste e lo stato, segnarono per sempre il profilo del capitalismo italiano in una misura superiore a quella degli anni di guerra.

La vittoria nella Prima guerra mondiale, che coronò la più grande prova di coesione nazionale mai offerta dall’Italia nel corso dell’intera sua storia e portò al completamento del Risorgimento col recupero delle terre irredente e il raggiungimento di confini sicuri sul fronte orientale, che fece riconquistare il prestigio militare perso nel mare di Lissa e nei campi di Custoza, Dogali e Adua, non fu pagata solo con i 650.000 caduti e il milione di altri feriti sui circa 5,8 milioni di arruolati, ma anche con una mole immensa di sacrifici e privazioni, durante e dopo il conflitto, che concorsero alla caduta del regime liberale e all’avvento del fascismo ben più degli effetti destabilizzanti della cosiddetta “vittoria tradita” da parte degli alleati con la pace di Versailles.
I sacrifici materiali ed economici, e gli oneri finanziari che gravarono sulla collettività per diversi anni dopo la pace di Versailles non furono troppo inferiori a quelli sostenuti negli anni di guerra. Le ristrutturazioni produttive e tecniche, la ridefinizione delle gerarchie societarie, i rapporti tra banca e industria, e soprattutto quelli tra queste e lo stato, segnarono per sempre il profilo del capitalismo italiano in una misura superiore a quella degli anni di guerra. Persino le ostilità, cessate sul fronte esterno, continuarono all’interno per opera degli ex combattenti, certo in forme di confronto e scontro neppure minimamente paragonabili a quelle di guerra, ma che comunque dalla guerra erano originate e che lasciarono un segno duraturo nella struttura della proprietà fondiaria del paese. Insomma, al costo pagato per la guerra si aggiunse quello pagato per poter ricostruire una possibile vita di pace.

 

L’economia italiana giunse stremata al termine delle ostilità. Durante il conflitto, la produzione agraria era gravemente diminuita. In particolare quella di frumento era scesa dai 5,7 milioni di tonnellate del 1913 ai 3,7 del 1917 e quella del mais da 2,9 milioni a 2,2. I principali generi di consumo erano stati razionati, col corollario del mercato nero. Nonostante la smobilitazione e il massiccio rientro di uomini dal fronte, la ripresa della produzione fu lenta, frenata in gran parte dalle gravi agitazioni originate dal malessere sociale e dalle attese create dalla propaganda di guerra, che aveva promesso che i sacrifici sopportati dai soldati al fronte, e dagli uomini e donne che nei campi e nelle officine avevano lavorato per la vittoria, sarebbero stati ripagati con concreti miglioramenti del livello di vita e con una piena partecipazione alla vita politica e civile. Solo nel 1923-25 la pro-duzione delle principali derrate tornò ai livelli prebellici. Problemi anche più gravi si ebbero nell’industria. La sua performance era stata senza precedenti, ma fortemente sbilanciata dalla crescita abnorme delle produzioni per gli armamenti. La fine delle ostilità e la conseguente, scontata contrazione della domanda bellica non fu adeguatamente compensata da un tempestivo e rapido sviluppo delle produzioni destinate ai consumi di pace. L’indice della produzione dell’industria manifatturiera, che nel 1916 aveva toccato quota 74 (1938=100), già nel 1918 scese a 62 e continuò poi a flettere fino a quota 54 nel 1921, che era in pratica il livello del 1914. La produzione di acciaio giunse quasi a dimezzarsi crollando da 1,3 milioni di tonnellate del 1917 a 0,7 del 1921. L’industria meccanica registrò una contrazione altrettanto rovinosa, nonostante la ripresa di alcune produzioni non legate alla guerra. Ma tutti i settori che più o meno intensamente si erano sviluppati in funzione della guerra accusarono il colpo della caduta della domanda interna.

 

Il commercio con l’estero, pur sollevato dalla necessità dell’enorme importazione di carbone richiesta dalla siderurgia di guerra, rimase pesantemente passivo. Il rapporto tra esportazioni e importazioni, che durante il conflitto era crollato, tornò solo nel 1927 sul livello del 1914, che peraltro era del 76 per cento. Il reddito nazionale a prezzi costanti nel 1919 scese al di sotto del già declinante livello degli anni di guerra e solo nel 1922 tornò a superare il valore del 1913. Identica cosa avvenne per il reddito pro-capite. Per tre anni, dal 1919 al 1921, i valori del risparmio nazionale furono negativi, come lo erano stati in tempo di guerra, contribuendo così a inanellare una serie di sei anni in cui il paese, oltre a consumare tutta la ricchezza prodotta, fu costretto a indebitarsi per il futuro. Nel corso della Seconda Guerra mondiale, gli anni con risparmio negativo furono solo tre (dal 1943 al 1945). Il governo si trovò in una situazione finanziaria e politica semplicemente drammatica, col debito pubblico già triplicato negli anni di guerra, un bilancio in deficit sin dal 1910 e con scarse possibilità di immediato risanamento, tant’è che il deficit si ripresentò fino al 1925, ossia a dittatura fascista ormai pienamente instaurata. Alle casse dello stato bussavano contemporaneamente i portatori di cartelle del debito pubblico per gli interessi e i creditori stranieri per capitali e interessi. Nel 1925 l’Italia regolò il debito con gli Stati Uniti con 2.042 milioni di dollari più 365,7 milioni per gli interessi. Nel 1926 liquidò quello con la Gran Bretagna con 588,6 milioni di sterline. Alle casse dello stato bussavano però anche imprese e banche in imminente dissesto, nonché le masse rurali e i circa 2 milioni di disoccupati che nel 1919 chiedevano i compensi promessi dalla propaganda di guerra e subivano il richiamo degli avvenimenti in Russia e dei sommovimenti sociali che percorrevano i maggiori paesi dell’Europa occidentale.

 

Di fronte alla fortissima tensione generatasi nelle campagne e nelle città tra datori di lavoro e movimento operaio, tensione culminata nell’occupazione di terre e fabbriche, Giovanni Giolitti pensò di poter adottare nel 1919-20 la stessa politica di disimpegno che aveva messo in atto nei primi anni del Novecento, quando il paese non aveva alle spalle una guerra della portata di quella del 1915-18. Conseguenza finale di tale scelta fu un innalzamento generalizzato dei salari nettamente superiore agli incrementi di produttività, con conseguente aumento dei prezzi dei prodotti. L’indice dei prezzi all’ingrosso passò tra il 1918 e il 1920 da 413 a 591 (1913=100), quello dei salari da 171 a 403. Ne derivò un’ulteriore spinta all’inflazione già galoppante degli anni di guerra, con la differenza che ora essa si scaricava soprattutto sui ceti medi non sindacalizzati e non protetti, buona parte dei quali reagì aderendo al fascismo. Il governo cercò di contenere gli effetti dell’inflazione mantenendo in vigore il prezzo politico del pane (costo per l’erario: 200 milioni di lire al mese nel solo 1919), nonostante fosse costretto ad aumentare il prezzo di ammasso del grano per non esasperare troppo i contadini. Lo stesso tentò di fare attraverso decreti prefettizi con il prezzo degli altri viveri, generando forti dislivelli nelle quotazioni praticate nelle diverse piazze della penisola.

 

La misura alla fine si rivelò insufficiente a evitare l’occupazione delle terre nel 1919 e delle fabbriche nel 1920. Insufficienti e contraddittori furono anche i provvedimenti che il governo adottò per venire incontro alle industrie di guerra, fornendo carbone a basso prezzo alle siderurgiche ed esercitando una blanda azione di contenimento delle quotazioni di mercato di materie prime come cotone, canapa, cuoio, pellami. Gli stimoli alla ripresa degli investimenti che ne potevano derivare furono però largamente vanificati dall’introduzione dell’imposta straordinaria sul patrimonio e della nominatività dei titoli, e dall’avocazione completa allo stato dei profitti di guerra; profitti in gran parte immobilizzati in investimenti per riconversione di impianti o volatilizzati dall’inflazione. Risultato: 76 anonime metallurgiche nel 1921 perdevano il 26,1 per cento del capitale e delle riserve, e 220 società meccaniche ne perdevano il 12,8. Tra il 1919 ed il 1921 il numero dei fallimenti si triplicò e non caddero in dissesto solo imprese minori prosperate nell’eccezionale congiuntura della guerra, ma anche alcuni dei maggiori colossi dell’industria italiana, come l’Ilva e l’Ansaldo. Il che innescò una crisi del sistema bancario, fortemente impegnato nel finanziamento della grande industria, che alla fine si risolse in oneri ingenti a carico della finanza pubblica e in un cambiamento epocale nei livelli e nelle modalità di intervento dello stato nell’economia.

 

L’Ilva, che già prima della guerra rappresentava gran parte della siderurgia italiana, aveva visto crescere il proprio capitale dai 30 milioni di lire del 1916 ai 300 milioni del 1918, e realizzato un’imponente espansione sia verso attività ausiliarie della siderurgia sia verso imprese del tutto indipendenti dallo stesso ramo siderurgico: con la Armstrong (artiglierie), la Magona, la O.M. (Miani e Silvestri) e altre ditte nel ramo della meccanica pesante, con la costituzione del Lloyd Mediterraneo in quello dei trasporti. Anche il capitale societario dell’Ansaldo dei Perrone era passato da 30 milioni di lire del 1916 a 500 nel 1918 più altri 100 milioni di lire in obbligazioni. Nel giro di pochissimi anni si era sviluppato dal nucleo originario, quasi esclusivamente meccanico, un trust verticale siderurgico-meccanico-marittimo che vedeva la Società Ansaldo acquistare le miniere valdostane di Cogne, costruire in Val d’Aosta alcuni grossi impianti per la produzione di energia elettrica, potenziare la grande acciaieria di Cornigliano, entrare nel settore marittimo attraverso la Società nazionale di navigazione e la Transatlantica italiana. Anche altre società, come la Terni, la Fiat, la Breda, avevano operato parziali integrazioni assorbendo imprese minerarie ed elettriche, ma l’Ilva e l’Ansaldo avevano effettuato acquisti anche in settori, come quello editoriale, che non avevano alcuna affinità o collegamento con quello metalmeccanico. Ebbene, dopo un convulso triennio di tentativi di rilanci produttivi e occupazionali, nel maggio del 1921 l’Ilva fu costretta a ridurre il capitale sociale da 300 a 15 milioni di lire divenendo proprietà della Banca Commerciale e del Credito Italiano, suoi maggiori finanziatori. L’Ansaldo invece cadde in dissesto nel marzo del 1923, dopo aver chiuso l’esercizio del 1921 con una perdita di 180 milioni e quello del 1922 con 331 milioni di deficit.

 

Le difficoltà e i fallimenti che accompagnarono queste vicende produssero effetti di grande rilievo nel sistema creditizio. Questo, imperniato sulle banche miste sorte a partire dal 1894-95 dalle ceneri del vecchio apparato creditizio postunitario delle banche di credito mobiliare, aveva largamente finanziato durante tutto il boom prebellico l’industria elettrica, siderurgica, meccanica, mineraria. Durante la guerra, l’esposizione delle banche miste nelle industrie collegate agli armamenti era cresciuto enormemente fino a divenire la parte più cospicua della loro attività. Col precipitare della crisi postbellica si accrebbe enormemente il numero delle imprese in dissesto che finirono sot-to il diretto controllo delle banche, le quali passarono da finanziatrici di imprese a proprietarie di imprese. Le perdite delle industrie cominciarono quindi a trasferirsi nei bilanci delle banche, e la posizione di moltissimi istituti di credito si indebolì a tal punto che alcuni di essi subirono clamorosi quanto disperati tentativi di scalata al pacchetto azionario da parte di grossi gruppi industriali in difficoltà. L’Ansaldo tentò di impadronirsi del pacchetto azionario della Banca Commerciale nel 1917-18. Fallito quel primo tentativo, ci riprovò nel 1920. Anche questa volta il tentativo fallì, come fallì anche quello di Giovanni Agnelli e Riccardo Gualino di impadronirsi del Credito Italiano, come contromossa a quello dell’Ansaldo contro la Commerciale e la Fiat stessa. Le difficoltà dell’Ansaldo resero assai critica la situazione della Banca Italiana di Sconto, sorta nel 1914. Nel 1921 se ne evitò il crollo grazie a un intervento della Banca d’Italia, ma nel dicembre dello stesso anno, nonostante il tentativo di soccorso attuato da un consorzio delle maggiori banche e della stessa Banca d’Italia, fu costretta a chiudere gli sportelli.

 

Fu in seguito a questo dissesto che il 4 marzo 1922 venne costituita una Sezione speciale autonoma del consorzio per sovvenzioni su valori industriali, autorizzata ad effettuare operazioni di credito fino alla concorrenza di un miliardo su fondi concessi dagli istituti di emissione. La sezione finanziò su fondi della Banca d’Italia l’esecuzione del concordato fra la Sconto e i suoi creditori. Successivamente, in seguito alla difficilissima situazione in cui venne a trovarsi nel marzo del 1923 il Banco di Roma, la Sezione finanziò anche la costituzione della Società finanziaria per l’industria e il commercio che rilevò le industrie verso cui il Banco si era maggiormente esposto con un costo per il Tesoro di 1.104 milioni di lire. La Sezione gestì anche la liquidazione del gruppo Ansaldo, costituendo una società di ugual nome per la continuazione di una parte delle attività del vecchio gruppo, mentre per le attività idroelettriche, minerarie, siderurgiche e marittime vennero costituite società anonime rimaste poi in gran parte in mano dello stato. In definitiva, attraverso la Sezione gran parte degli oneri dei dissesti industriali e finanziari finì per gravare sulle casse dello stato ed inoltre venne a crearsi un primo non trascurabile nucleo di imprese controllate più o meno direttamente dallo stato. Il che significava un cambiamento radicale delle forme dell’intervento statale nell’economia, che sino allora erano consistite essenzialmente in incentivi e rendimenti garantiti alle compagnie ferroviarie, commesse di favore (acciaierie Terni), finanziamenti speciali (marina mercantile) e soprattutto nella politica di protezionismo doganale inaugurata nel 1878 e rafforzata nel 1887. Mai però lo stato si era fatto imprenditore. Il primo atto di nascita dell’impresa pubblica, sia pure in dimensioni minori, avvenne quindi nel 1922 con la nascita della Sezione, e fu un costo per il paese che dura ancora oggi e che solo in pochi periodi si è tradotto in seri vantaggi per la nostra economia.