Il premier britannico David Cameron, favorevole alla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea, e il sindaco di Londra Boris Johnson, che invece vorrebbe uscirne

Azzardo Brexit

Paola Peduzzi
Fino a poco tempo fa gli inglesi che volevano uscire dall’Ue erano solo tipi strambi. Ora sono quasi glam. Cronaca di una metamorfosi

Boris Johnson ha lasciato David Cameron con un messaggino: tra mezz’ora esco e dico a tutti che non sto più con te. Alcuni smentiscono, sostengono che il sindaco di Londra abbia spiegato al premier britannico le sue ragioni in una lunga email, e che la storia dell’abbandono brutale non è vera. Ma che qualcosa sia andato storto, nella comunicazione del tradimento, è evidente dalla reazione di Cameron: pazzo di rabbia, il premier è andato alla Camera dei Comuni a dare la sua versione dei fatti, facendo battute personali su Johnson, usando espressioni volgari, colpendo sotto la cintura, volutamente e ridendo, con l’unico, inutile intento di vendicarsi.

 

Così è cominciata la campagna inglese per il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea, che si terrà il prossimo 23 giugno. David Cameron guida il fronte che vuole mantenere il paese dentro all’Europa, e Boris Jonhson guida il fronte avversario, i temibili sostenitori della Brexit.

 

Fin da quando Cameron annunciò, tre anni fa, la volontà di organizzare un referendum, era chiaro che la questione europea avrebbe creato la più grande esplosione dentro al Partito conservatore da decenni a questa parte. Craig Winneker, direttore delle News a Politico Europe, azzarda un paragone: “C’è il rischio che la separazione tra Cameron e Johnson danneggi i Tory – dice al Foglio – quanto Donald Trump sta danneggiando il Partito repubblicano americano. Boris e Donald: hanno anche gli stessi capelli”.

 

Allora, nel 2013, al momento dell’annuncio, alcuni commentatori vicini al mondo dei Tory dissero: è proprio necessario?, come quelle amiche assennate che ricordano di non fare mai domande di cui non si è in grado di accettare la risposta. Ma Cameron voleva mettere fine al tormento europeo, alla maledizione del suo tiepido eurofilismo che è anche tiepido euroscetticismo, mentre gli europei, con la loro abitudine sciagurata di pretendere conferme che non arrivano mai, non sapevano nascondere insofferenza e preoccupazione. Così il premier ha stabilito: facciamo il referendum, poi non voglio sentir fiatare più nessuno sulla questione. E ha aggiunto, dopo un breve calcolo: rinegozio un patto matrimoniale vantaggioso con l’Ue, ve lo porto in dote, voi non mi rifilate l’etichetta eterna del “premier-che-ha-fatto-uscire-il-Regno-Unito-dall’Ue”, che potrebbe rivelarsi impopolare, e siamo tutti contenti.

 

La promessa sembrava accettabile. L’euroscetticismo inglese è leggendario, è da sempre radicato nel popolo britannico, geloso della propria autonomia, innamorato dell’epica dell’insularità, superbo custode della propria superiorità culturale. Non è dato al mondo un inglese che non abbia mai intimamente pensato che l’Europa è una sòla colossale. Però il pragmatismo, la vicinanza, la consuetudine alla convivenza smussano gli spigoli, in fondo l’appartenenza a un mercato comune ha reso grandi vantaggi al Regno Unito. Secondo uno studio di Highchart, due terzi degli inglesi si dichiarano euroscettici, ma non sono convinti di voler lasciare l’Europa. Ecco perché la campagna referendaria è importante: l’indecisione è alta, ci sono quattro mesi di tempo per conquistare gli “swing voters” conservatori (e non solo), che sono tanti. E secondo i sondaggi, sono sensibili soprattutto a quel che dice il governo e a quel che dice Boris Johnson. Così Cameron si trova con due problemi: contrastare i ministri ribelli dentro al proprio governo – che sono cinque e sono influenti – e contrastare il sindaco di Londra che in quel governo si è rifiutato di entrare (si dice che Cameron gli abbia offerto un ministero in cambio della pace europea).

 

Il gioco di potere interno ai Tory non è una novità. Cameron ha già annunciato in passato che questo sarà il suo ultimo mandato (se dovesse perdere la battaglia europea, non si dimetterà e negozierà la Brexit), la gara per la successione è aperta, e i nomi che circolano sono da tempo gli stessi, Boris Johnson, il cancelliere dello Scacchiere George Osborne, il ministro dell’Interno Theresa May. Si sapeva che lo scontro sarebbe diventato pubblico e brusco – sarebbe innaturale il contrario – e si sapeva che Johnson, il più ciarliero se non il più ambizioso, aspettava l’occasione perfetta per dare il via al duello.

 

Il problema è che prima dei tradimenti, i sostenitori della Brexit formavano una compagine litigiosissima, senza un leader riconosciuto, con un ampio spettro di interpretazioni che si sintetizzava in una soltanto: l’Europa fa schifo perché ci leva soldi e sovranità, stiamo meglio da soli. I giornali internazionali hanno nei mesi intervistato con solerzia i tanti leader dei tanti gruppi legati alla Brexit, cercando di spiegare che ancora il fronte era sfilacciato ma che stava costruendo la propria compattezza (si dovrà presentare un gruppo soltanto, che potrà prendere i finanziamenti per il referendum), mentre i giornali britannici, che alla promessa di unità non hanno mai creduto, raccontavano di bisticci, soffiate, sgambetti, piccinerie memorabili. Fino a una settimana fa, la Brexit era una causa nazionalista urlata e disarticolata, con argomenti cari al popolo birtannico, certo, ma pur sempre poco presentabile. Poi è arrivato Johnson, con la sua creatività seducente, poi è arrivato il ministro dela Giustizia Michael Gove, che è un intellettuale più che un politico, uno che parla chiaro e spiega ancora meglio, e d’un tratto la campagna per la Brexit, che sembrava poco decorosa e improvvisata, ha acquistato glamour, passione, argomenti, visibilità, vita.

 

Una volta era tutto semplice, ha scritto Hugo Rifkind sul Times, soltanto i “weirdos”, i tipi strambi, volevano lasciare l’Europa. “Erano tutti uomini – scrive il columnist del quotidiano murdocchiano tendenza Brexit – sembravano tutti usciti da ‘I mostri’, ed erano ossessionati dal pericolo di avere intorno qualcuno che ti imponeva le regole su quanto dritte dovessero essere le banane, lasciandoti lì a chiederti se era effettivamente delle banane che stavano parlando”. Se non erano strambi, erano comunque tipi che davano l’impressione che evocare la Brexit fosse “una finta, una presa di posizione, come quelli che dicono ‘le tasse dovrebbero essere volontarie!’ o ‘bisognerebbe abolire i cani!’”. Ora invece gli “outie” non sono più così strambi. “Prendete Gove per esempio – scrive Rifkind – Certo, sa essere piuttosto stridulo. Certo, per qualche ragione sembra sempre che sia appena stato strangolato. Ma non è un pazzo, no? Non è uno di loro. O Boris Johnson. Potrebbe Johnson fare qualcosa di irresponsabile, azzardato e potenzialmente disastroso? Ok, va bene, questo esempio non funziona, è ovvio che potrebbe. Ma capite cosa voglio dire?”. L’aria è cambiata, iniziano a esserci dubbi, “e se non ce li hai tu, ce li ha sicuramente un tuo parente”, perché essere un “outie” non è più esclusiva degli outsider o degli indipendentisti urlatori.

 

Con tutta probabilità, poi, i dubbi ci sono sempre stati. Sarah Vine, moglie di Michael Gove ed editorialista del Daily Mail, ha raccontato nella sua ultima column i tormenti del marito, e la propria certezza sul fatto che questo referendum avrebbe fatto esplodere se non i Tory, sicuramente il rapporto tra Gove e Cameron. “Mio marito ha molte ossessioni strane e talvolta irritanti: presidenti americani sconosciuti, Wagner, i libri usati. Ha anche un’avversione irrazionale per le piante d’appartamento e le quiche. Ma poche passioni battono l’antipatia che ha per l’Europa: gli sprechi, i favori reciproci, gli imbrogli, la burocrazia senza fine, la marcia inarrestabile del federalismo europeo, soprattutto l’erosione della sovranità britannica”. Gove è sempre stato così, dai tempi del liceo, forse ancora prima, i suoi amici erano stupiti che “un arcieuroscettico come lui stesse con me, che ero cresciuta in Italia”, scrive la Vine. Gove quindi non poteva schierarsi con Cameron, ma il fatto che uno come lui, un giornalista, uno scrittore, un intellettuale, si schieri per il “Leave” sdogana tutto e tutti, rende presentabile quel che prima non lo era. Forse scandalizza i nazionalisti, che con il liberismo non hanno molta dimestichezza, ma in fondo anche loro devono ringraziare: se ora la Brexit ha una chance non è certo grazie a quel che hanno fatto finora.

 

C’è uno altro aspetto, culturalmente e politicamente più rilevante. Gove, come Johnson, è un liberista, quindi sta costruendo la campagna referendaria a favore della Brexit come la più grande offensiva dei liberali contro i protezionisti, dei moderni contro i passatisti. Riconquistare la sovranità perduta significa rilanciare il Regno Unito nel mercato globale, proiettando il paese là dove innovazione e competitività fanno la differenza, abbandonando regole, lacci, impedimenti generati dai meccanismi paludati dell’Unione europea. Nel 1975, quando si tenne l’ultimo referendum inglese sull’Unione europea, i liberali erano dalla parte dell’Europa, vedevano nella costruzione comune del progetto – con molti privilegi negoziabili – l’occasione per rilanciare il Regno Unito. Oggi quel paradigma è saltato: gli “outie” sono sempre stati nazionalisti e isolazionisti, ora invece, con l’arrivo dei big testimonial, possono giocare la carta delle opportunità del mercato globale. E non solo: possono dire basta con la paura e con l’urlo scomposto, la Brexit è ottimismo.

 

Per il momento l’ingresso dei Johnson e dei Gove non ha divorato quel che c’era. Se sulla carta l’approccio dei nuovi arrivati non ha alcuna vicinanza con gli argomenti consueti dei sostenitori della Brexit, le due realtà si muovono in modo appaiato. I giornali, che sono stati straordinariamente feroci nei confronti di Cameron e del suo negoziato con l’Ue (le copertine dei tabloid il giorno dopo il deal sono da collezione), continuano la loro campagna per la Brexit. La stragrande maggioranza dei quotidiani è orgogliosamente euroscettica: se il Times si muove con toni più prudenti – dice: ora vediamo che cosa ha da offrirci Boris Johnson, e poi decidiamo –, il Telegraph lancia ogni giorno allarmi sulla possibile epurazione che Cameron vuole fare contro i ministri ribelli (il premier forse vorrebbe farla davvero, ma non può). Al Guardian, che pencola tra il Labour eurofilo di Jeremy Corbyn e gli europeisti sfegatati che sono i Lib-Dems, resta il compito quasi solitario di difendere, imbarazzato, la linea del governo conservatore. I tabloid invece si divertono e basta: ogni giorno c’è una nuova trovata su quanto l’Europa sia un fardello da abbandonare il prima possibile, al confronto le discussioni sulla curvatura delle banane non sono niente.

 

[**Video_box_2**]E’ comprensibile che Cameron sia così rabbioso. Il governo voleva tenere per sé la carta dell’ottimismo, voleva l’esclusiva, voleva raccontare la bella storia a lieto di fine di un paese che rinegozia la sua posizione cercando di valorizzare le proprie differenze e unicità e che poi questo valore aggiunto lo mette a disposizione dei partner e del resto del mondo. Non è ovviamente detto che la scommessa di Cameron sia persa, tutt’altro: in questi giorni i giornali e i think tank britannici stanno producendo una grande quantità di dati che dimostrano che il fattore incertezza è quello meno ponderabile e quindi il più pericoloso. Se ancora è da stabilire – e si litigherà fino alla morte – quanto la solitudine del Regno Unito possa essere un’opportunità, resta l’interrogativo legato all’imprevedibilità, che in questa settimana si è già trasformato in nervosismo costante, come dimostra il crollo della sterlina. Ma per Cameron, e ancor di più per il suo cancelliere dello Scacchiere, l’inossidabile Osborne, fa una bella differenza dire: restiamo perché ci conviene e staremo tutti meglio, oppure essere costretti a buttarla sulla catastrofe: non sappiamo che sarà di noi se votiamo per la Brexit.

 

Ora al governo conservatore spetta l’onere di riacciuffare il glam smarrito e riportarlo dalla propria parte. L’Europa ha deciso di starsene fuori – Craig Winneker dice che “molti a Bruxelles sono stanchi di parlare di quella che essenzialmente è una lotta dentro ai Tory inglesi”, anche se l’ansia è palpabile – e per tanti esperti è una buona idea. L’ingerenza europea, in altri contesti, ha fatto sì che si votasse e rivotasse fino a che il risultato non era accettabile, mentre in Inghilterra l’occasione è una e una soltanto. Intanto lo Spectator mette in copertina una vignetta in cui Cameron viene azzannato sul sedere da un cane con la bandiera britannica, e gli spunta dallo strappo nei pantaloni un pezzo di bandiera europea. Di fianco, vola il guinzaglio che il premier ha appena perduto.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi