Boris Johnson, sindaco di Londra: biondo di successo, grande eccentrico a partire dalla chioma

Capelli di sabbia

Michele Masneri
Il potere e l’ossessione pilifera. Togli i ricci selvaggi di Grillo e Casaleggio, togli pure le barbe (che non portano granché bene), è la calvizie lo stato di natura del politico

Corti o lunghi. Tinti o naturali. Con trapianto, parrucca o pizzetto. “Non c’è giorno che lui non pensi ai capelli. A tagliarli molto o poco, a tagliarli subito, a lasciarli crescere, a non tagliarli più”: è l’incipit della “Storia dei capelli”, finta autobiografia tricologica dell’argentino Alan Pauls (Sur Edizioni), portatore di bellissima zazzera brizzolata in proprio, che attraverso chiome e acconciature racconta l’Argentina degli anni Settanta, anche e soprattutto politica. Ma l’ossessione pilifera riguarda spesso proprio i politici; oltre il demagogico-ginecologico “più pilu per tutti” di Antonio Albanese-Cetto Laqualunque, l’hairstyle denota semmai appartenenza più del vincolo di mandato, spesso segnala scarti alla regola e inquietudini altrimenti impercettibili. Tra potere e follicolo è sempre stata guerra, la normalizzazione del vello la regola. Il cursus honorum prevedeva infatti il sacrificio del pelo: “Hos tu otiosos vocas inter pectinem speculumque”, “chiamali oziosi questi, tra il pettine e lo specchio!” scriveva Marziale moralista tricologico – oggi si chiederebbero gli scontrini, dei barbieri, come battaglia politica – per le prime botteghe di tonsores che sorgevano a bordo strada. A Roma infatti è nato il potere ed è nato insieme il rasoio, non a caso; anche oggi, la fantasia del taglio non è al potere: e forse a livello globale non sarebbero stati eletti Barack Obama col capoccione afro della gioventù, o Bill Clinton col ciuffone degli inizi, o Tony Blair con la zazzera alla Mick Jagger.

 

L’eccentricità non ha mai pagato. Ciuffi ribelli segnalano diversità. A partire dal ricciolo che segnala inaffidabilità: la chioma corvina di Gianni De Michelis a un certo punto diventò silhouette segnaletica di Mani pulite, sottoposta a damnatio memoriae, e amputata come in un rito apotropaico di passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Simmetricamente falliva un molto riccio personaggio immaginario, l’implacabile giudice Annibale Salvemini impersonato da Alberto Sordi in “Tutti dentro”(1984), un proto-Di Pietro che contravveniva agli ordini del suo superiore, “surtout pas trop de zèle”, soprattutto mai troppo zelo, moralizzando la capitale finendo poi naturalmente a sua volta moralizzato secondo la nota massima di Pietro Nenni.

 

E chissà dove porteranno ora i ricci selvaggi di Gian Roberto Casaleggio, ricci frisé, lunghi sulle spalle, e coperti da cappellino, che aumentano la dimensione misterica del guru dei Cinque stelle e lo accomunano al suo leader Beppe Grillo. Il riccio selvaggio come anarchia contro il rasoio del potere? Nel suo fondamentale “Dizionario di erudizione storico ecclesiastica”, Gaetano Moroni (1802-1883), bibliofilo, dignitario pontificio, aiutante di camera dei papi Gregorio XVI e Pio IX, riferisce che “nell’Asia tutti usarono capigliature lunghe ma i capelli lunghi ebbero successo soprattutto in Francia: i Galli ritenevano i capelli lunghi come segnale di onore e di libertà, ma Cesare dopo averli soggiogati fece loro recidere la chioma”.

 

Chissà se il percorso di normalizzazione dei Cinque stelle, passato per l’accordo sui giudici della Consulta, e che porterà forse alla fine dell’assolutismo Grillo-Casaleggio, passerà per una tonsura. Fino ai ciuffi sorvegliatissimi di Di Battista, o alla rasatura severa di Di Maio. Roma del resto vuole il capello corto, o Roma o riccio.

 

”I capelli lunghi in Roma si facevano crescere solo per certi lutti” scrive sempre il Moroni; “ma in Francia poi anche dopo il Medioevo Luigi XIII amò molto i suoi capelli, e fu cagione che si portassero lunghi; e ancor più lunghi sotto Luigi XIV, e sotto Luigi XV e XVI si cominciò ad arricciarli”; ma poi con la Rivoluzione francese si corse ai rasoi e alle forbici e poi soprattutto con Napoleone si ritornò alla moda dell’Impero, dunque alla pettinatura romana, con testine imperiali dette “alla Titus”, cortissime, o da “abbacchiotti”, come scrive Arbasino in “Fratelli d’Italia”. A Roma testine da imperatore o da casco per scooterone. Il riccio è tollerato solo in caso di chiome candide dunque autorevoli, l’età smorzando il capello selvaggio: ecco allora il già senatore a vita Gianni Agnelli, e poi il nazareno Denis Verdini (“i nazareni non potevano mai essere tosati”, scrive sempre il capitano Moroni). Il riccio, se anziano, va bene: ma che non si esca dalla dicotomia (a Roma, “mai una via di mezzo tra l’abbacchio al cartoccio e il renard argenté”, sempre Arbasino).

 

Difficoltà anche più scabrose poi “sotto”: in America non c’è un presidente barbuto da quasi un secolo, l’ultimo è stato il non celebre Benjamin Harrison, che però procedeva nel solco aperto trent’anni prima da Lincoln – ma lì si era ancora ai tempi di prima dell’invenzione del rasoio industriale. L’unico barbuto attuale è lo speaker del Congresso, Paul Ryan, che orgogliosamente rivendicava la peluria: “Sono il primo speaker della Camera con la barba in cent’anni” aveva detto, ma poi col nuovo anno si è presentato improvvisamente implume accanto al presidente Obama durante il discorso sullo stato dell’Unione (pare abbia confidato di notazioni circa la sua “barba da musulmano” che in questi tempi non andrebbe molto bene).

 

Ma ancora nell’antica Roma, il taglio della barba era rito di passaggio, dall’adolescenza alla giovinezza, e solo i poeti e i soldati potevano sottrarsi alla rasatura da adulti. Scipione Emiliano, detto anche Scipione minore, era accusato come macchina del fango dai senatori romani di avere una barba troppo lunga e soffice sinonimo di furbizia orientale (la barba si usava in Grecia, a Roma era simbolo di deboscio), mentre nel film “Scipione detto anche l’Africano” di Gigi Magni, Catone dice con filologia errata “chi ’sse fa la barba nun è omo!”. Solo Adriano sceglie quel look barbuto metrosexual-ellenista, pare in quanto traumatizzato da tagliuzzamenti di barbieri imperiali all’alba del II secolo dopo Cristo: “Le stimmate che io porto sul mento / quante un grugno ne ostenta / di pugile in pensione / non mia moglie / me l’ha fatte, folle di furore / con le sue unghie / ma il braccio scellerato d’Antioco e il suo ferraccio” (sempre Marziale).

 

Anche in epoche successive, la barba non ha portato granché bene: Giovanni Goria, il premier più giovane della Repubblica, e ricordato soprattutto però per la caricatura di Forattini (barba e capelli con niente in mezzo). Ha avuto la barba in una fase, ma è apparso rasatissimo, quasi un pupo, il neo ambasciatore a Bruxelles Carlo Calenda, figlio politico e spirituale di un altro pezzo da novanta pilifero, Luca Cordero di Montezemolo. Un barbuto recente è invece l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, altro irregolare, barba che come spesso accade arriva in corso d’opera a segnalare passaggi di stato, fine di apprendistati morali e Bildunsgroman pericolosi, o Sturm und Drang. Su Marino la peluria segnalò l’inizio di una nuova fase unchained non fortunata. Altro barbuto è il ministro della Cultura Dario Franceschini, e però ministro-scrittore, dunque ne ha facoltà; autore di romanzi più sudamericani che ferraresi, titoli come “Nelle vene quell’acqua d’argento”, che sembrano invocare a forza un autore irsuto. Poeta e barbuto anche il (forse) prossimo inquilino del Campidoglio, Roberto Giachetti, ex radicale, ex Margherita, un irregolare dello spirito e del barbiere, candidato del Pd alle primarie per Roma Capitale, con peluria curata ma ispida, inquieta come certe plaquette poetiche che confeziona agli amici (nella raccolta “Un passo avanti e uno indietro” del 2009 scrive: “Rotondare i lembi del cuore / così che le parole non vadano più a segno”; “c’è un silenzio obbligato / c’è un amore che supera il silenzio / tagliato dai fiori e dalla lapide”).

 

A proposito di lapidi vale poi lo sfottò capillare di Carlo Emilio Gadda nei confronti del Foscolo, detto “Il basetta”; nell’appena pubblicato “Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo”, Adelphi, ecco una critica soprattutto tricologica alle vanterie irsutistiche del Poeta sempre pronto a sfoggiare barbe e baffi e irsuti petti; “vantarsi del pelo è un’opinione da parrucchiere”.

 

Ma ancora in politica, Roma non riesce a recidere il pelo e la spesa superflua: così pur in preda a spending review anche drammatiche, ecco salvata la barberia della Camera: già data in chiusura come “fine di un’epoca”, è stata invece conservata riducendone però il personale, i barbieri da sette a quattro, con risparmi stimati in 150 mila euro e i barbieri in esubero collocati fuori ruolo a funzione di commessi d’aula: segnalando anche platicamente una vicinanza tra democrazia parlamentare e crema Prep.

 

Però alla Roma antica si ispira anche uno dei politici più piliferi del pianeta, e altro grande eccentrico a partire dalla chioma, Boris Johnson, esperto di storia capitale, e biondo di successo che potrebbe idealmente discendere dalla gens Flavia, quella dell’imperatore Vespasiano che fece costruire il Colosseo, e che pare dovesse il suo cognomen al capo “flavus” cioè biondo, anche se certamente con coiffure più ordinate. Un altro biondo di successo era Nerone, e Svetonio racconta che l’imperatore ragazzino fece della sua prima tosatura omaggio a Giove Capitolino, e la prima lanugine del suo volto depose nel Tempio. “Ai più belli tra gli dei, e anche agli eroi, è stata data capigliatura bionda”, scrive il capitano Moroni, mentre oggi per altri biondi, in corsa per la Casa Bianca, si ipotizzano addirittura scalpi: in una biografia largamente non autorizzata, “Lost Tycoon: The Many Lives of Donald J. Trump”, l’allora solo miliardario e non ancora candidato avrebbe detto alla moglie in carica Ivana: “Maledetta, il tuo dottore mi ha rovinato”, per un lifting particolarmente invasivo che consiste nello scollare i capelli, rimpannucciare la pelle sulla fronte e poi ricucirli; tecnica detta anche appunto dello scalpo, praticata già anticamente dalle più antiche popolazioni eurasiatiche; con valenze politiche, poi attribuita cinematograficamente soprattutto ai nativi americani durante la grande corsa al West. E non sfigurerebbe su un destriero all’esterno di un saloon il codino di Pablo Iglesias, leader di Podemos, partitone spagnolo antagonista fin dalla cute; e per sottolineare diversità e alterità Iglesias si è presentato a re Felipe II senza giacca ma con baffo, pizzetto e lungo codino alla Buffalo Bill (conduce anche un programma, Iglesias, che si chiama Fort Apache).

 

[**Video_box_2**]Pochi gli irregolari calvi, infine: essendo la calvizie lo stato di natura del politico. “Guardo quelli al potere, quelli che ci governano, e vedo che non hanno capelli in testa”, disse Bob Dylan in un celebre discorso nel 1963. Il percorso di autocoscienza verso la calvizie può essere doloroso; non accettandolo si finirà nella negazione e nel riportino: “Racimoli di qui e di là i pochi capelli che ti trovi e l’ampio spazio”, sempre Marziale. “Della tua pelata veli con quello che ti cresce sulle tempie: ma ecco che tornano ai loro posti mossi dal vento e cingono di qui e di là con grandi cirri il capo nudo… confessa la tua età; nulla c’è di peggio di un calvo capellone”. Tralasciando ex premier e presidenti del Senato italiani ecco oggi il riportino di Bernie Sanders, riportino però liberal e argenteo con ciuffetti che dalla nuca si spingono faticosamente verso la fronte, frontiera impossibile come probabilmente la sua vittoria alle primarie democratiche. Una volta accettata, invece, la calvizie può consacrare un’immagine e creare un’icona. Ecco in Italia le pelate di lungo corso dei Lothar di D’Alema (copyright Maria Laura Rodotà), ora pretoriani turbo renziani Fabrizio Rondolino e Claudio Velardi; D’Alema però – ha scritto Stefano Lorenzetto – li chiamava invece “la mia bocciofila”.

 

Rarissima poi la boccia sexy alla Yul Brinner: e tutti pronti per il ritorno dell’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis, protagonista per alcuni mesi di cortocircuiti mediatici tra cappottini di pelle e motociclette Harley Davidson e “haircut” impossibili su di lui ma probabili sul debito di Atene. Già accusato e accusatore di tradimenti, dimissionario, comunicatore, negoziatore ambiguo, il 9 febbraio a Berlino presenterà il suo movimento “paneuropeo” Diem 2025 (The Democracy in Europe Movement 2025). “Vi fu un tempo in cui si giurò sui capelli, come poscia si giurò sul proprio onore”, scriveva il capitano Moroni: in alcuni casi mancando sia gli uni che l’altro.

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