Xavier Broseta, uno dei dirigenti di Air France aggrediti lunedì scorso dai dipendenti dopo l’annuncio dei tagli del personale della compagnia aerea (foto Reuters)

Polvere di manager

Stefano Cingolani
I quarantamila passavano per il centro ben coperti e compatti nel grigio degli abiti e nel blu delle sciarpe, una sola faccia triste e devota, lucida di commozione e di ostentazione verso l’occhio e la presenza di Dio padre. Che il padrone vedesse.

I quarantamila passavano per il centro ben coperti e compatti nel grigio degli abiti e nel blu delle sciarpe, una sola faccia triste e devota, lucida di commozione e di ostentazione verso l’occhio e la presenza di Dio padre. Che il padrone vedesse. La commozione dell’intesa e della riconoscenza cresceva a ogni dieci passi. Si allargava nelle piazze e ondeggiava lungo le curve, come un liquido arrivando a lambire le finestre dei piani nobili, molti già con bandiere tricolori”.

 

Paolo Volponi la racconta così nel suo rabbioso e bilioso romanzo “Le mosche del capitale”, quella marcia che a Torino il 14 ottobre 1980 segnò la svolta alla Fiat e trasformò i servi dei padroni in crociati del lavoro. Non ci sarà nulla di simile a Parigi, nonostante il sostegno che il primo ministro socialista Manuel Valls ha dato ai dirigenti dell’Air France aggrediti. I tempi sono diversi. Allora in Italia, in Francia, in Germania, i capi venivano centrati con le Walther P38, le pistole dei nazisti adottate dall’estrema sinistra, oggi solo con calci e pugni. Ma in ogni caso un’immagine come quella dei manager assaltati, picchiati, in fuga disperata, a torso nudo, non era nemmeno nei sogni dei più indignati tra gli Indignados.

 

Eroi o traditori? Vittime o carnefici? Linciati dagli operai, gambizzati o uccisi dai terroristi rossi, innalzati sugli altari e gettati nella polvere, insetti che volano attorno alla torta del capitale o paranoici costruttori di imperi economici?

 

Difficile che Fréderic Gagey, presidente e direttore generale di Air France, il più importante degli aggrediti, quindi quello che se l’è cavata meglio, conosca quel libro. Tanto meno Xavier Broseta, l’uomo che a torso nudo s’è arrampicato sulla rete divisoria, e Pierre Plissonnier che ne è uscito con la camicia strappata. Scommettiamo che non lo abbia mai letto nemmeno il capo supremo del gruppo Air France Klm, quello con molti nomi e cognomi perché nobile sia pur di nobiltà napoleonica, Alexandre Marie Henry Begoügne de Juniac, già portavoce di Sarkozy, alto dirigente di aziende di stato e poi capo di gabinetto di Christine Lagarde quando lei era ministro delle Finanze.

 

Eppure quel bizzarro scrittore-manager ne aveva rivelate di cose sulla maltrattata seppur dorata esistenza di un alto dirigente d’azienda, blandito e lisciato quando fa comodo e poi cacciato con un pretesto quando pretende di salire troppo in alto, di non pagare i dividendi agli azionisti (una volta sottratti, ovviamente, i propri benefici diretti e indiretti) o diventare lui il padrone.

 

Nel romanzo di Volponi, che formatosi alla Olivetti passò alla Fiat per finire come senatore del Partito comunista italiano, il ricambio ai vertici funzionava così: “Il Presidente, indignato, volle offenderli anche personalmente e, senza staccare, appena mutando tono, chiamò al telefono la segretaria, incaricandola di avvertire il direttore generale che avrebbe dovuto cortesemente, anche quella sera, andare a cena con lui. Si accese un sigaro, come sollevato per un attimo, poi si rivoltò a licenziare bruscamente i due amministratori”.

 

Il presidente, che il narratore chiama Nasàpeti, era in realtà Bruno Visentini, tributarista, intellettuale, musicologo, ministro, deputato del Partito repubblicano, vicepresidente dell’Iri e della Confindustria collocato da Enrico Cuccia nel 1964 ai vertici di una Olivetti in piena crisi finanziaria. Visentini non amava “l’azienda di nessuno” e teorizzava “il ruolo virile dell’imprenditore”, eppure fu per tutta la vita il massimo esponente in Italia di quella figura ambigua (che tanto piace anche i francesi) di professionista del capitale e della politica, in grado di mettere sotto scacco anche i banchieri e gli azionisti per prendere lui lo scettro. Come la serva padrona di Giovan Battista Pergolesi ben nota al professore, trasformata in categoria storico-dialettica nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel.

 

Non che viaggino tutti a queste altezze da capogiro, eppure i manager non meritano la gogna. Senza di loro, non esisterebbe l’impresa moderna che, come spiegava Joseph A. Schumpeter, si è fatta tanto più anonima quanto più è diventata complessa. I Rockefeller, i Ford, gli Agnelli, i Krupp, tutti i più grandi hanno avuto bisogno di cancellieri, ciambellani e mandarini, spesso tanto abili da diventare signori di se stessi in quelle che gli americani hanno chiamato public company.

 

I primi a teorizzarlo sono stati Adolf Berle e Gardiner Means nel 1932 gettando benzina sul New Deal rooseveltiano. Nel volume “The Modern Corporation and Private Property” pubblicano i risultati di un’indagine su 200 grandi imprese degli Stati Uniti, volta ad appurare chi le controlla. La conclusione è che il controllo da parte dei dirigenti è già la forma dominante, tanto che il sistema economico americano andrebbe definito “capitalismo manageriale”. Nel Dopoguerra diventa il paradigma di riferimento, fino a che negli anni 70 questo modello si dimostra incapace di far fronte al grande rifiuto.

 

Contro i manager e i capi, ancor più che contro i padroni, scattano gli scioperi a gatto selvaggio. Sono loro i bersagli della guerriglia e della lotta armata. L’operaismo marxista-leninista li trasforma nei nemici numero uno perché sono gli agenti del piano del capitale e le fabbriche si trasformano in campi di battaglia.

 

In Italia, tra l’estate e l’autunno 1970 entra in clandestinità il Collettivo politico metropolitano guidato da Renato Curcio e nascono le Brigate rosse. Il 17 settembre la stella a cinque punte fa la sua prima apparizione con l’incendio al box dell’auto di Giuseppe Leoni, dirigente della Sit-Siemens. Il 27 novembre viene bruciata la vettura del capo dei vigilantes della Pirelli Bicocca. Tutti, “sergenti, sottufficiali dell’apparato di dominio capitalistico”.

 

Nel gennaio 1973 spuntano a Mirafiori i primi volantini firmati Br. Nasce il “partito armato” che fa della Fiat il suo Vietnam. Il salto di qualità avviene il 10 dicembre dello stesso anno con il sequestro di Ettore Amerio, capo del personale Fiat. “Nessun compromesso con il fascismo della Fiat”, è scritto nel primo volantino delle Brigate rosse che rivendica l’attacco da parte di un nucleo combattente davanti all’abitazione del “cavalier Amerio”. Nel secondo si dimostra una conoscenza dell’organizzazione interna e delle funzioni di comando nell’azienda precisa, accurata, tanto che il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, comandante dei carabinieri a Torino e poi capo dell’antiterrorismo, sospettava che esistesse una talpa ai piani alti di corso Marconi. Quanto in alto?

 

Alla Fiat s’intensifica il potere di fuoco. Nel 1975 vengono colpiti un vice capofficina di Rivalta e il medico del servizio sanitario di Mirafiori. Le Br rivendicano l’incendio all’officina 81 e di aver colpito il capo del personale dello stabilimento di Rivalta, Mario Scoffone. Tre capireparto sono feriti nel 1976 (due a Cassino) e ben sette gambizzati l’anno successivo. Il 1978 si apre con il ferimento a gennaio di Gustavo Ghirotto, caporeparto di Mirafiori, seguito da un funzionario aziendale, Sergio Palmieri, fino all’uccisione il 28 settembre di Pietro Coggiola, capofficina della Lancia, freddato da un commando Br. Il “corpo fisico del potere”, come lo chiama il professor Toni Negri, ideologo della “violenza proletaria” e della sua “geometrica potenza di fuoco”, è sott’attacco, indebolito, piegato, impaurito.

 

In Francia non si arriva a questi livelli perché il potere sa reagire in tempo, anche se formazioni come la Gauche prolétarienne, nata sotto l’egida del filosofo Louis Althusser, imiteranno l’esempio italiano. Nel 1972 viene ucciso un vigilante della Renault durante un’azione dei Gépistes come venivano chiamanti a Billancourt. A poco a poco prendono le distanze dalla violenza omicida alcuni militanti intellettuali che poi diventeranno celebri nelle università e nella stampa, come il filosofo André Glucksmann, lo scrittore Benny Lévy, il politologo Olivier Roy o il giornalista Serge July che dirigerà Libération il quotidiano generato da quella esperienza e acquisito dieci anni fa da Edouard de Rothschild.

 

In Germania sarà la Raf, Rote Armee Fraktion, fondata da Andreas Baader e Ulrike Meinhof, a combattere contro “gli agenti dello stato fascista e imperialista delle multinazionali” (definizione condivisa con le Brigate rosse italiane). Nel 1977 viene rapito Hanns-Martin Schleyer, presidente della Confindustria (i tre uomini della scorta e l’autista sono assassinati come avverrà poco dopo in Italia nel caso Moro). La scia di sangue prosegue fino al 30 novembre 1989, quando una bomba fa saltare nella sua Mercedes il presidente della Deutsche Bank, Alfred Herrhausen, sembra grazie all’aiuto della Stasi, la polizia segreta della Germania est ormai condannata alla sconfitta.

 

Tra Br, Gp e Raf esisteva anche una sorta di embrionale comitato di collegamento. Nel 1970 è stato l’editore Giangiacomo Ferltinelli, erede di una delle grandi famiglie di industriali elettrici che finanziarono il fascismo, a propiziare l’incontro a Parigi. Allora Feltrinelli non si faceva più chiamare Giangi, ma comandante Osvaldo ed era entrato in clandestinità.

 

Capitalismo e anticapitalismo, padroni e terroristi, che intreccio perverso. Un dirigente della Fiat di robusta caratura intellettuale, Maurizio Magnabosco, ha dato una lettura sociologica del fenomeno italiano. Entrano in fabbrica giovani, scolarizzati, studenti, privi di qualsiasi cultura industriale o rapporto con il lavoro, tanto meno con la disciplina aziendale, che accettano malvolentieri un posto alla Fiat, pronti a lasciarlo o, come nelle frange più politicizzate, a contestarlo. Ma il terrorismo rosso ha una matrice soprattutto politico-ideale. E viene sconfitto con un cambiamento politico-ideale che trasfigura il capo azienda e il suo valore simbolico, finché la svolta liberista non trasforma gli “agenti del capitale” nei nuovi eroi dei tempi moderni.

 

E’ difficile parlare di manager come di una categoria ben definita, perché la realtà ha generato un’ampia gamma di tipi, maschere, persone, da quando negli anni 20 Alfred Sloan emerse come il grande costruttore di imprese, l’uomo che ha fatto di General Motors la numero uno e l’ha organizzata in modo che restasse in vetta per settant’anni. Della stessa stoffa è fatto Jack Welch, che ha guidato la General Electric dal 1981 al 2000 e l’ha plasmata a sua immagine e somiglianza. O John Chambers, che gestisce la Cisco da vent’anni. Tutti signori indiscussi in imprese dove non esiste un azionista dominante.

 

Grandi organizzatori e autocrati nello stesso tempo: figure del genere ce ne sono state anche in Italia, basti pensare a Enrico Mattei o Eugenio Cefis passato dall’Eni alla Montedison. Ben diverso Vittorio Valletta, dominus incontrastato alla Fiat dalla Seconda guerra mondiale fino al 1966, ma sempre rispettoso della barriera esistente tra lui e la famiglia Agnelli. Una paratia non del tutto stagna nel caso di Cesare Romiti, soprattutto a opera di Enrico Cuccia, che nel 1994 arriva a detronizzare Gianni Agnelli detto l’Avvocato usando proprio il fido Romiti.

 

Sergio Marchionne appartiene alla specie degli scalatori. Il modo in cui ha salvato la Fiat è oggetto di studio alla Harvard Business School. Ma ancor più stupefacente è come abbia preso la Chrysler senza pagare un centesimo, usando i quattrini dei contribuenti americani e quelli dei sindacati, ripagati poi nei tempi e nei modi prestabiliti. Adesso arriva addirittura a sfidare General Motors, Davide contro Golia, con l’obiettivo di prenderne in controllo.

 

[**Video_box_2**]Il manager è sempre un po’ paranoico, a teorizzarlo in modo provocatorio è stato Andrew Grove, l’uomo che ha portato Intel a dominare il mercato dei microprocessori. “Solo il paranoico sopravvive” è il titolo di un suo libro diventato famoso, nel quale racconta la nuova era elettronica dominata dal caos (che perde, dunque, ogni significato negativo). Proprio Grove nella prima pagina del suo volumetto avverte: “Il successo negli affari contiene i semi della sua propria distruzione”.

 

Di casi del genere sono piene le biblioteche. Basti ricordare Jeff Skilling autore del trionfo e della rovina della Enron cresciuta a ritmi esponenziali, quasi come Intel. Ma la differenza è che la sua espansione era truccata. Skilling è stato condannato a 24 anni di galera. Il suo presidente Ken Lay è morto d’infarto. Eppure ce ne sono altrettanti per i quali la legge s’è rivelata impotente, tanti che hanno spolpato le aziende, poi se ne sono andati con scandalose buone uscite. E’ tutto scritto nelle cronache di questi giorni. E’ accaduto anche all’Alitalia.

 

Una variante è rappresentata dai demolitori. Vengono assunti da imprese inefficienti e piene di debiti con il mandato di risanarle. Ma si sa fin dall’inizio che l’unica strada è farle a pezzi, vendere quel che è più appetibile, incassare, accontentare le banche e gli azionisti, poi fare le valigie. Succede alla Rcs.

 

C’è una versione postmoderna introdotta da Riccardo Ruggeri, ex alto dirigente della Fiat, il quale fa parlare un suo amico americano chiamato Tommy. Si tratta del “manager omeopatico” che si riserva alcuni privilegi: la libertà di non decidere, di cambiare radicalmente opinione in funzione di obiettivi diversi, di comunicare al mercato quando vuole, cosa vuole e come vuole, la libertà di minacciare e di condizionare l’opinione pubblica. Il tutto senza mai delegare, tenendo strettamente per sé i dati strategici richiesti dagli azionisti, dalle autorità di controllo, dai media.

 

A chi corrisponde questo ritratto? Per Ruggeri a un brillante allenatore di calcio come Mourinho (anche i “mister” sono manager tra i più importanti nella società dello spettacolo). Dunque, dobbiamo considerare Tommy il guru della nuova era, il Peter Drucker del secondo millennio? Durante la Grande recessione, la sua ricetta ha aiutato tante grandi imprese a galleggiare nella tempesta, molti patron a difendere la roba e molti dirigenti a salvare il posto. Ma serve davvero per trovare una nuova rotta? Oggi non c’è un paradigma dominante e forse non ci sarà più. Paranoico, omeopatico, ricostruttore, demolitore, un manager può essere uno, nessuno e centomila. Una sola cosa deve assolutamente evitare: scappare a gambe levate con la camicia a brandelli.

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