Se solo le persone smettessero di chiedersi: dove vai in vacanza?, sai che pace in città, e nei cinema all’aperto

Vacanze e altri deliri

Annalena Benini
L’attesa di un anno, l’angoscia della vigilia, il sogno di spogliarsi e il desiderio di restare a casa. Sai che tramonti, se solo potessimo partire senza portarci dietro quei guastafeste di noi stessi

E adesso vorresti tantissimo rimanere a Roma. Adesso che hai prenotato, pianificato, litigato, disdetto, cambiato destinazione, perso e ritrovato i passaporti, preparato la valigia perfetta, che sta nella cabina dell’aereo, adesso che purtroppo non è più inverno e l’isola è vicina, troppo vicina, adesso lo sai, che le vacanze sono una trappola e non sei abbastanza forte per partire leggera come quel trolley (detesti anche la parola trolley, e il rumore che fanno le ruote, e non è un bel modo per cominciare una vacanza: Robinson Crusoe era così convinto di ciò che voleva, così deciso, lui che appena naufragato si costruì un fortino, poi una croce, una zattera, un’identità, e tu che perdi la testa anche al controllo bagagli, ma quando ti è caduto il telefono nel water dell’aeroporto, all’andata, hai compiuto il primo – l’unico – atto eroico di tutta la vita). Se solo potessimo partire senza portarci dietro quei guastafeste di noi stessi, sai che bellezza i tramonti sul mare. Se solo le persone smettessero di chiedersi: dove vai in vacanza?, sai che pace in città, e nei cinema all’aperto.

 

Perché, non hai voglia di partire?, chiedo con un filo di voce al telefono, già offesa, quindi trionfante, con la segreta e assurda speranza di mandare tutto a monte. “Mi prendi in giro? Sole, mare, vento, barca, case bianche che mi fanno lacrimare gli occhi, nessuna via di fuga, i figli degli altri che non posso neanche minacciare di morte. Io volevo andare a Praga e a Budapest in treno. E che palle ’sta Grecia. Spero di sopravvivere, ma finirà che ci odieremo”. Ma non perdiamo tempo, odiamoci subito, è la risposta, e a Praga in treno ci si va a diciott’anni, massimo ventuno, ma tu a diciott’anni che cazzo facevi, le gare di motocross? Bisogna restare calmi, però, sono vacanze, sono quella cosa da cui si torna più belli, più lisci, con i capelli schiariti dal sole (tranne me l’anno scorso con la bronchite e la faccia verde), i bambini più alti e più selvaggi che la sera si addormentano di schianto, le vacanze sono quel tempo breve in cui ammassiamo tutti i nostri desideri di fuga controllata, di rinascita, di aggiustamento, di pace, perfino di vita che cambia. L’anno nuovo, a settembre, carico di minacce, comincerà soltanto dopo questi giorni sospesi, su un’isola greca o in montagna, dall’altra parte del mondo o a cinquanta chilometri da casa. E’ un rischio, sempre, un azzardo: se non saremo felici? Se avrò mal di denti? Se pioverà tutto il tempo? Se litigheremo di più? Se ci sarà un attentato? Ma perché vado in Islanda se il freddo mi fa venire male al cuore? E come mi è venuto in mente di partire senza di lei, che mi manca il respiro? La vita facile non è così facile, se scendi dall’aereo, in Messico, con la varicella, e passi dieci giorni d’inferno in una stanza d’albergo a cospargerti di borotalco e nessuno vuole portarti il cibo in camera per paura del contagio, e tua moglie non vuole dormirti accanto perché sei troppo deturpato.

 

Anche il viaggio della vita, quello di due interi mesi per cui lei aveva litigato con tutti perché alla tua età non puoi vivere ancora come una hippie, le dicevano sua madre suo padre il suo ex marito, i suoi figli adolescenti e qualche amico brutale, può diventare un nodo in gola se in Indonesia, sull’isola più lontana, quella che dopo l’aereo a elica ci vogliono due barche per raggiungerla, quella con la capanna sulla spiaggia e gli squali piccoli e buoni che però fanno paura lo stesso, e il mare più azzurro che lei abbia mai visto, la sabbia più bianca, e il deserto più deserto, e l’uomo più abbronzato e tatuato accanto, se in quel posto sognato su internet per tutto l’inverno, allenandosi a dormire per terra e a lavarsi dentro un secchio, immaginando forse anche alcune scene tagliate di “Laguna Blu”, a poco a poco sale un dolore alla guancia, e lei lo tasta con la lingua ma non vuole farci caso perché i pappagalli sono così colorati che ci si commuove, la natura tutta insieme e tutta addosso è un colpo al cuore, e lui è così tatuato e lei non vuole fare la figura dell’ansiosa ipocondriaca inadeguata al selvaggismo, e le persone sono felici con poco, ridono e vanno in giro scalze, insomma sarà stata l’aria condizionata in quel primo albergo con quaranta gradi fuori di notte, saranno stati troppi aerei, lo stress, i litigi, ma il dolore aumenta, la guancia pulsa, si gonfia, lei ci ha legato intorno una sciarpa, la notte cammina in tondo nella capanna mentre lui russa sotto una zanzariera, di giorno si immerge e parla con i pesci e chiede aiuto al dio del mare, ma quello che mostra alle amiche apprensive nelle foto su Whatsapp è indiscutibilmente un ascesso. O almeno una deformazione del mento. Un batterio killer? I primi sintomi del vaiolo? Lo streptococco indonesiano? Non ci sono medici perché la gente è felice con poco, solo un santone in un villaggio a due barche di distanza. L’Augmentin (grazie penicillina, grazie Mary Hunt) sta finendo e comunque il bozzo sulla mandibola è sempre lì. Ci sono i topi per terra in questo schifo di posto. Ma ti ricordi quella scena di “Cast Away”, quando Tom Hanks con la guancia gonfia si toglie un dente con la lama di un pattino e sviene per il dolore pazzesco e per poco non cade nel fuoco e brucia vivo?, dice ridendo il tatuato, che scoppia di salute e si vanta di accendere il fuoco con le pietre. Ma sai che dovresti farci, tu, con quelle pietre? Tutto ciò che lei desidera adesso non è più la vita selvaggia, ma una lastra, una laurea incorniciata appesa al muro di un vero studio medico, il cemento, la civiltà, altre scatole di Augmentin e la faccia di prima, quando era solo stressata per la partenza.

 

Al diavolo “Laguna Blu” e al diavolo, soprattutto, quelli che dicono: staccare la spina. Avevo davvero bisogno di staccare la spina. Era ora di staccare la spina. Si vede proprio che stavolta hai staccato la spina. Siamo capaci, nella stessa enunciazione di pensiero insensato, di dire subito dopo anche il contrario, intendendo però una cosa identica: avevo bisogno di ricaricare le batterie. Per staccare la spina e ricaricare le batterie (con la spina staccata? com’è possibile?) prendiamo voli intercontinentali con fiducia totale e cuscini ergonomici per la cervicale, noleggiamo camper, ci innamoriamo di maestri di tennis o di vagabondi in partenza per l’Africa e come Sabrina Ferilli in “Ferie d’agosto” diciamo: “Portami via con te”, e poi invece torniamo a casa, accogliamo virus intestinali come un passaggio necessario per il raggiungimento di una nuova armonia, cerchiamo ashram in cui bruciare il nostro ego e trovare le vibrazioni giuste, con la speranza di uscirne ringiovaniti e pieni di luce, anche più magri, magari insieme all’idraulico neozelandese che sorride mentre prega. Oppure ricostruiamo il caos che viviamo durante il resto dell’anno, pensando che sia trasportabile e necessario all’equilibrio: lei quell’estate nella vacanza in barca con il fidanzato aveva portato anche l’amante, raccontando che era un caro amico in crisi sentimentale, e quando il fidanzato è sbarcato sulla prima isola con traghetti, lanciando anatemi e valigie, lei ha pianto fino in Turchia e poi fino a Brindisi, chiusa in cabina, è tornata a Torino pallida e smunta come dopo un’estate di luci al neon, mentre l’amante smarrito e carico di maledizioni ha incontrato una ragazza con le espadrillas alte al mercato di Bodrum (stava contrattando per un melone) e ha risolto in poche ore la sua crisi sentimentale.

 

[**Video_box_2**]Le vacanze non sono mai un tempo innocuo, una settimana o quindici giorni di riposo e bellezza, sono la nostra vita, carica di tutto quello che ha costruito, distrutto durante l’inverno e sperato in primavera, trasportata altrove e sdraiata al sole, o in mezzo al ghiaccio, o dentro una catena di musei o di foreste, distesa per tutta la lunghezza dei giorni, senza nascondigli, senza possibilità di rinchiudersi in ufficio o di avere una riunione, perché tutti possano vedere chi siamo davvero, quando ci spogliamo non soltanto dei vestiti ma di tutte le scuse sul tempo che manca. Tua moglie, che non è abituata ad averti sempre accanto in costume da bagno, spalmato di crema e in cerca di ombra, con il mal di testa da mancato stress, ti guarda un po’ stupita un po’ atterrita, e pensa e adesso che facciamo? I figli, che ti chiedono: ma non vai al lavoro oggi, ma davvero vieni a nuotare con noi, ma non sei capace, non fai mai il bagno, e ti studiano con sospetto, sul serio stai montando un barbecue?, e annunciano che comunque è l’ultima volta, mamma, no non mi va di suonare la chitarra con voi, l’anno prossimo vado a Ponza con le mie amiche, il padre di Giovanni ha un catamarano, loro sì che si divertono. E tu, che guardi troppo il telefono, controlli le email anche di notte come quando lavori ma sono solo pubblicità di viaggi o di incontri erotici, è tutta spam come quella che ti senti ancora addosso, dopo due giorni di vacanza (dicono gli esperti che ce ne vogliono almeno tre per cominciare a rilassarsi, quindi se al quinto riparti era meglio se restavi a casa) e non sai se aspettare quel messaggio o sperare invece che non arrivi mai, che non cambi niente, non sai se trasformare queste vacanze in una fine o in un inizio, guardi il mare all’alba (perché in vacanza non riesci a dormire, e compri la colazione per tutti, e leggi i giornali che non hai mai letto in febbraio) e non sai più che cosa pensare, che cosa desiderare: guardi il mare e pensi che tutta quell’acqua continuerà a scorrere comunque, qualunque altro errore farai. Anche i pesci, che cosa importa ai pesci del tuo ascesso, delle placche in gola, del tuo cuore in inverno anche se è estate, o del tumulto che non sai fermare. E’ quello, di solito, il momento malinconico in cui si sente di avere preso possesso del tempo in vacanza, di averlo trasformato nella riflessione esistenziale con cappello di paglia in testa e abbronzatura senza segni perché almeno a una promessa si è tenuto fede: quasi niente costume, ed è spesso anche il momento intenso della medusa, o della caduta rovinosa sugli scogli, o anche, se si è molto inesperti, dell’insolazione con piaghe. Fa parte del rito d’agosto quindi anche la cura delle ferite e delle scottature, ti prego spalmami la crema sulla schiena ma fa’ piano, e te l’avevo detto di non tuffarti da quella parte, e adesso ti terrò la fronte finché non avrai vomitato l’ultima cozza avariata, se non uccide fortifica, ed è sempre sorprendente la scoperta, negli altri, del talento per le emergenze: partirò con un’amica che alcune estati fa in Namibia ha salvato la vita e il braccio al marito in un incidente d’auto durante un safari nel deserto: mi rassicurano la sua prontezza di riflessi, la sua borsa con le medicine, la sua esperienza nell’evitare ai compagni di viaggio la morte per dissanguamento, la capacità di trovare ovunque il segnale del telefono, la naturalezza con cui si fa obbedire dagli sconosciuti e il godimento evidente nel risolvere i problemi; qualsiasi cosa succeda, infatti, a me hanno detto di pensare solo al vino.

 

Però adesso che si sta per andare, che tutti mandano messaggi di saluti dagli aeroporti e dai traghetti, adesso che il volo è stato anticipato alle quattro del mattino con comunicazione via email recuperata per caso dalla posta indesiderata, e i bambini saltellano per l’eccitazione di viaggiare con il buio e non hanno nessuna intenzione di dormire e vogliono partire con le pinne ai piedi, adesso che le vacanze sono così vicine che le stai toccando, e infatti chi ha paura di volare tace nervoso e non vuole nemmeno sapere il nome dell’isola in cui vi fermerete, e intanto senti un inizio di mal di gola, un inizio di morbillo, un inizio di sopraffazione interiore, ecco che arrivano le foto dall’Indonesia: la guancia si è sgonfiata, non fa più nessun male, il santone ci ha messo un unguento, e adesso scusa ma stiamo tutti insieme attorno a un falò acceso con le pietre, sai qui le persone sono felici con poco, vedessi che colori, quanti pesci, quanta vita, sembra quasi, non vorrei dirlo, “Laguna Blu”.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.