Urlano in dialetto, sono brutti e non si coprono. Sono loro, o siamo noi?

Stefano Sgambati
Non c’è niente di più frustrante che scoprire di assomigliare al proprio nemico. Quell’entità che analizzi e sezioni per formare un te stesso all’opposto; ti agiti e scalpiti ma, come per le sabbie mobili, più vorresti venirne fuori più ne sei inglobato.

Non c’è niente di più frustrante che scoprire di assomigliare al proprio nemico. Quell’entità che analizzi e sezioni per formare un te stesso all’opposto; ti agiti e scalpiti ma, come per le sabbie mobili, più vorresti venirne fuori più ne sei inglobato. Non sei un sociopatico, né un antropofobo: anzi ti definisci una persona semplice e in genere è sufficiente che uno sconosciuto approcci dandoti del “lei” per fartelo stare simpatico, ma succede che ogni certezza crolli in vacanza. E’ lì, infatti, che si fa strada l’ipotesi che catalogare i tuoi simili dal punto di vista fenotipico e suddividere la specie umana in razze biologicamente distinte, caratterizzate da diverse capacità intellettive o morali, sia non solo plausibile ma giusto.

 

Giusto, perché gli italiani se lo meritano, più precisamente, quelli in vacanza all’estero. Un pensiero che ti fa sentire bene, non è vero? Organismi pluricellulari che dànno il loro peggio in ogni momento, con impegno e cognizione di causa. Che con talento rappresentano se stessi solo attraverso i difetti e la riproposizione modulare e autistica dei propri tic. Niente di ciò che fanno ti va bene: che leggano solo Fabio Volo o i thriller nordeuropei o Camilleri o Faletti e che mangino scomposti, appoggiati sui tavoli coi gomiti, o che mastichino con la bocca aperta e che trattino la manovalanza con superiorità o arroganza. Non ti piace che strillino per parlare e trovi aberrante e sospetta la capacità di stringere relazioni intime in così poco tempo: persone che fino a sette, otto ore prima non si erano mai viste all’improvviso uniscono tavoli, condividono disavventure di viaggio, attuano piccoli scherzi vicendevoli e in ultima analisi si taggano sui social network con fare cameratesco. Non sopporti gli accenti marcati: i romani, che imprimono il romanesco perfino dicendo “hello”, e fai presto a scoprire che la gorgia toscana devasta anche il generico augurio “hakuna matata” africano. Ti arrovelli: se non sono alla ricerca dell’altro da sé, allora a che serve tanta fatica? Noti a margine un qualche cosa di perfettamente algebrico (e di misterioso) nel modo in cui la proporzione che riguarda la lontananza dall’Italia si applica ai tuoi compaesani in vacanza nella misura in cui più chilometri mettono tra loro e la terra natìa più diventano cretini. Il massimo sforzo lo raggiungono, o almeno così ti pare, quando incrociano babelicamente i dialetti tra loro, come spade forgiate diecimila anni fa, per raccontarsi aneddoti sulle recenti esperienze di compravendita presso gli ambulanti locali neanche fossero transitati attraverso l’esperienza “caratteristica” più straordinaria di sempre. Il trionfo di uno sull’altro, che ha pagato tre dollari o euro di meno lo stesso monile, viene sottolineato da urla di giubilo e scherno: si rivedranno a cena, poche ore più tardi, e quello sarà ancora l’argomento del giorno.

 

Sono brutti ma non si coprono. Anzi, ostentano. Oppure si coprono ma optando per un abbigliamento post-kitsch, anche fluo, comunque iper-griffato (spesso e volentieri il colletto della Polo marchiata Ralph Lauren è sollevato sulla nuca). Forse stai per invidiare tanta leggerezza, tanta nonchalance, ma poi rientri nei ranghi della tua bolla di snobismo quando senti partire, insieme a un coro goliardico inneggiante allo chef, anche la polemica sarcastica (puntualmente stigmatizzata su TripAdvisor) se per caso la pasta a ottomila chilometri dall’Italia è scotta.

 

Incollati ai loro telefonini, si fanno fotografare accanto a esotici autoctoni facendo il segno di V con l’indice e il medio: non sembrano più nemmeno turisti ma colonizzatori gonfiati a Pampero. Apprendono i rudimenti della lingua quel tanto che basta per ordinare una birra, rinunciando per fortuna all’intento di far entrare nella testa del barista locale il concetto di “stuzzichino”: elargiscono mance non tanto per spirito benefico quanto per spettacolarizzazione del proprio potere d’acquisto.

 

[**Video_box_2**]Così finisci a passeggiare sul bagnasciuga spossato, evitando chiunque, cercando qualche spunto sofisticato, ma in realtà sei più stanco di quando sei partito. Non sei nemmeno riuscito a farti invidiare dalla tua claque di Facebook, perché per opporti alle malsane abitudini generali ti sei ostinato a lasciare in camera il cellulare per tutto il soggiorno. Non pensi di meritarti un simile epilogo, quando l’ennesimo indigeno già da lontano ti squadra, ti indica e comincia a sorridere, fiuta l’affare, accelera il passo e dopo averti affiancato e poi superato e osservato ben bene negli occhi, pronuncia, senza la minima inflessione interrogativa, assertivo e solenne, quella parola che ti fa crollare alla prima vocale e che quasi ti piega le gambe alla seconda sillaba, uccidendoti quando la bocca forma infine un circoletto attraverso cui riesci a intravedere denti bianchissimi. Almeno vuoi essere dignitoso nel crollo, perciò annuisci, non arretri e non ti opponi: rispondi sì, sì, con le mani che cominciano ad alzarsi, perfino, come se quello davanti a te non stesse sorridendo beffardo, pronto a offrirti incredibili affari, ma ti stesse puntando in faccia un fucile, una terribile arma che non deflagri un proiettile ma un’altrettanto definitiva sentenza: “Italiano!”.

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