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la riforma

Più che separare le carriere si cambi il modo in cui si fanno i processi

Giovanni Fiandaca

È molto difficile che la riforma della giustizia possa rivitalizzare immediatamente il modello accusatorio di processo e la cultura dei giudici e dei pm. Tuttavia, si spera idealmente che possa influire sulle consolidate percezioni del ruolo dei magistrati accusatori e giudicanti

Da anni le forze politiche tendono a strumentalizzare le leggi in materia di giustizia penale per dare segnali sul piano della comunicazione politica e/o su quello del generale orientamento culturale dei cittadini. Un recente esempio emblematico, per di più bipartisan, la progettata riforma della violenza sessuale, che la incentra sull’assenza di un consenso libero e attuale. Se la Lega non avesse richiesto un approfondimento, sarebbe stata subito varata nonostante la notevole genericità della nuova formulazione e una grave ingiustizia in termini di logica punitiva (la previsione di una stessa pena anche per ipotesi di violenza più gravi, cioè commesse su persone in condizioni di inferiorità fisica o psichica o con inganno). Ma aggiustare la pena avrebbe creato contrasti politici insuperabili. Si stava dunque per dare il via libera alla riforma anche a costo di approvare un mostriciattolo giuridico: sarebbe stato più importante veicolare senza indugi il messaggio, di valenza innanzitutto simbolica, che tutti i partiti hanno a cuore la lotta alla cultura maschilista e la protezione della libertà sessuale delle donne!

 

La strumentalizzazione politica, a ben vedere, non è neppure esente dalla riforma delle carriere dei magistrati, oggetto principale di questo intervento. Si tratta di riforma dai contenuti discutibili, ed è controvertibile per una ragione di fondo che ben li trascende: la disciplina del rispettivo ruolo di pm e giudice è vivacemente dibattuta sin dal secondo Ottocento, perché la questione presenta una intrinseca e irriducibile problematicità. Ogni modello di regolamentazione presenta pro e contro; non è possibile la quadratura del cerchio. Non a caso, sulla riforma Nordio si è spaccata anche l’associazione dei processualisti italiani, che hanno finito col redigere due documenti separati rispettivamente firmati da studiosi favorevoli e contrari.

La guerra di religione che è in atto vede contrapposti la magistratura, rappresentata dall’Anm col sostegno delle forze di sinistra, e il centrodestra insieme al mondo dell’avvocatura e si basa, ufficialmente, su motivazioni di principio. Com’è noto, i magistrati lottano per il mantenimento dell’assetto attuale in nome dell’unicità della “cultura della giurisdizione” (concetto vago, ridotto ormai a usurato slogan) e, soprattutto, per la preoccupazione che la riforma preluda a una sottoposizione del potere giudiziario al controllo del potere politico (timore invero non infondato, specie se l’esperienza dovesse dimostrare che un pm “separato”, piuttosto che venire ridimensionato, gode invece di più potere e maggiore libertà di azione). Ma è diffuso anche il sospetto, forse non troppo malizioso, che le motivazioni ufficiali celino preoccupazioni meno nobili: cioè che i magistrati vogliano soprattutto dimostrare di avere ancora un potere di interdizione delle riforme politiche loro sgradite, conservare una posizione di forza nel sottoporre a un controllo occhiuto i politici e salvaguardare la logica e il potere delle correnti.

I fautori della separazione, come sappiamo, mettono in campo come ragioni di fondo l’esigenza di dare più concreta attuazione ai princìpi del “giusto” processo, la fedeltà al modello accusatorio di processo e la necessità di contrastare lo strapotere dei pm potenziando la terzietà dei giudici. Ma pure questa volta non mancano sospetti che i reali intendimenti siano altri: una rivendicazione anche simbolica di potere da parte della corporazione degli avvocati nei confronti della corporazione dei magistrati e un tentativo da parte della destra di riaffermare la supremazia della politica rispetto al potere giudiziario. Conflitti soprattutto di potere, dunque, sotto la veste ideale delle ragioni di principio.

Come stanno effettivamente le cose? Forse, come non di rado accade nelle cose umane, coesistono motivazioni dell’uno e dell’altro tipo, su entrambi i versanti confliggenti. Ma, nell’ottica di chi sia soprattutto interessato all’affermazione dei valori del garantismo penale, ciò che maggiormente dovrebbe importare è valutare, al di fuori di pregiudizi ideologici e logiche preconcette di schieramento, se e in che misura la riforma Nordio sia idonea a favorire un vero progresso in chiave di giusto processo.

 

Orbene, esistono fondati motivi per dubitare che la riforma della separazione delle carriere, considerata in se stessa, possa produrre l’effetto magico di rivitalizzare il modello accusatorio di processo, modificare la cultura e la mentalità di pubblici ministeri e giudici anche nelle loro rispettive relazioni funzionali e contrastare lo strapotere delle procure. A parte i suoi discutibili profili contenutistici, si confida idealisticamente nella idoneità della pur sempre settoriale riforma sulla carta di una parte dell’ordinamento giudiziario a incidere sul reale funzionamento del processo e a modificare effettivamente, anche sul piano psicologico, consolidate autopercezioni di ruolo da parte dei magistrati d’accusa e giudicanti. Senonché, è senz’altro più realistico pensare che il carattere accusatorio o meno del processo dipenda, più che dalla disciplina ordinamentale dei ruoli magistratuali isolatamente considerata, dalla logica complessiva sottostante alle norme che ne regolano il funzionamento. Insomma, è la struttura del processo davvero determinante. E il processo penale italiano è da tempo non solo senza una precisa identità: l’ispirazione accusatoria, che connotava la riforma processuale Vassalli del 1988, è stata progressivamente ridimensionata se non rinnegata da interventi normativi successivi, anche abbastanza recenti, nonché da prassi giudiziarie poco coerenti col modello accusatorio. Come ha ben rilevato Paolo Ferrua, uno dei maggiori processualisti, persino la riforma Cartabia ha inferto un duro colpo alla dimensione accusatoria del processo vigente, spostandone l’asse verso l’indagine preliminare e così allontanando la fase del dibattimento.

Se così è, per recuperare la logica del processo accusatorio nella prospettiva di una più coerente attuazione dei princìpi del giusto processo, occorre molto di più di una mera disciplina separata delle carriere dei magistrati penali.

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