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l'editoriale del direttore
Più status quo, non più sinistra. Le truffe dei nemici della riforma Nordio
Dire no al referendum non significa essere di sinistra ma non voler scardinare il potere delle correnti, non voler combattere la magistratura ideologizzata e mantenere intatto lo status quo. Che si dica no in nome della difesa della democrazia o della Costituzione è una truffa storica
Il formidabile e coraggioso contributo offerto ieri sulle nostre pagine da Augusto Barbera, ex parlamentare del Pci, ex ministro del governo Ciampi, ex presidente della Corte costituzionale, conferma se mai ce ne fosse ancora bisogno che il poderoso pacchetto di riforme sulla giustizia sul quale l’Italia voterà nella prossima primavera attraverso il referendum, tutto si può considerare tranne che un veloce e progressivo cedimento alle politiche di destra. Augusto Barbera, sul Foglio, ieri ha ricordato che la riforma della giustizia è “inevitabile”, ha ricordato che separare le carriere tra pm e giudici era un passaggio inevitabile a seguito di una riforma fatta da un altro uomo di sinistra come Giuliano Vassalli nel 1989, ha spiegato che non esiste per nessuna ragione al mondo la possibilità che a causa di questa riforma il pm sia assoggettato alla politica, ha motivato – Costituzione alla mano – le ragioni per cui il sorteggio del Csm è più che legittimo e più che costituzionale per disarticolare il potere delle correnti e con una posizione inattaccabile, da uomo di sinistra, riformista, non meloniano, attento alla Costituzione, ha offerto ragioni limpide per spiegare perché dire di Sì a questa riforma non significa essere di destra. Prima di lui, con argomenti non diversi, sono intervenuti altri due ex presidenti della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick sul Foglio e Cesare Mirabelli sulla Stampa.
Mirabelli ha spiegato bene perché il sorteggio del Csm “è una soluzione diretta a rompere il dominio delle correnti sui sistemi elettorali”. E’ intervenuto anche un altro pezzo da novanta come Sabino Cassese, membro emerito della Consulta, secondo il quale la riforma “è una decisione quasi obbligata, quasi un atto dovuto, maturata a lungo nella cultura giuridica italiana per assicurare ai cittadini la massima garanzia di imparzialità del giudice, nel rapporto trilaterale fra accusa, difesa e giudizio”. E su questo filone, sulle nostre pagine, sono intervenuti a favore della riforma esponenti del mondo progressista come Enrico Morando (cofondatore del Pd), Stefano Ceccanti, Giorgio Tonini, Claudio Petruccioli, Claudia Mancina, Cesare Salvi e persino Antonio Di Pietro, uno tra i pochi con un passato da pubblico ministero a ricordare senza paura che questa riforma spaventa la magistratura perché toglie potere alle correnti (Di Pietro si è persino iscritto a un comitato promotore per il Sì).
Tempo fa, come se non bastasse, abbiamo ricordato che nel 2019, dicasi 2019, dunque non cento anni fa, al congresso del Pd una delle mozioni congressuali (quella di Maurizio Martina) appoggiate da un pezzo importante della classe dirigente del Pd di oggi (compresa l’attuale responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani) sostenne che “il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”. Dunque, no. La riforma della giustizia, pur essendo una storica bandiera della destra, non è una riforma di destra, non è una riforma fascista, non è una riforma estremista, e pur essendo criticata dalle solite vestali della Costituzione che si ringalluzziscono ogni volta che una qualsiasi parte politica cerca di cambiare la Costituzione, non è neppure una riforma che aggredisce la Costituzione, e anzi, come ripetuto da Barbera, Flick e Cassese, altro non è che una riforma che va a tutelare l’articolo 111 della Costituzione, secondo il quale il processo avviene nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, di fronte a un giudice terzo e imparziale. Criticare la riforma Nordio, naturalmente, è più che legittimo, e non c’è nessuno scandalo a farlo.
Ma chi oggi la critica dovrebbe avere il coraggio di farlo non in nome della difesa della sinistra, non in nome della difesa dell’antifascismo, non in nome della difesa della Costituzione, ma in nome di tutto ciò che significa voler mantenere intatto lo status quo. In sintesi: non voler scardinare il potere delle correnti, non voler combattere la magistratura ideologizzata, non voler creare un meccanismo più trasparente per la valutazione dell’operato dei magistrati, non voler indebolire gli ingranaggi della gogna, non voler creare un sistema all’interno del quale il processo avvenga in condizioni di parità, dove per parità si intende il giusto equilibrio tra pm e avvocati, rafforzando la presenza di un giudice ancora più terzo e ancora più imparziale. Essere contro la riforma Nordio è del tutto legittimo.
Esserlo in nome della difesa della Costituzione, in nome della difesa della democrazia, in nome della difesa della sinistra è una truffa storica. Chiamare le cose con il loro nome, forse, può aiutare a capire che cosa significa voler cambiare la giustizia e che cosa significa lottare per difendere uno status quo che ha reso la nostra democrazia più fragile, più vulnerabile, più esposta alle esondazioni dell’unico pieno potere che minaccia l’Italia: quello dei pm.