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L'intervento

Oltre il referendum c'è di più. Le derive del diritto penale in Italia

Giovanni Maria Flick

L’approccio del governo ai temi della politica criminale, dell’ordine pubblico e della sicurezza preoccupa: proliferano nuove fattispecie di reato e aggravanti che contribuiscono a sfigurare l’equilibrio del codice penale. E la magistratura non è esente da critiche. Populismi giudiziari da arginare

Il confronto/scontro fra politica e magistratura sulla riforma costituzionale “della separazione delle carriere” è ormai deflagrato. Con la costituzione dei comitati per il Sì e per il No si rischia che qualsiasi intervento sul tema venga “etichettato” per l’una o per l’altra parte. La magistratura lamenta che la riforma potrà costituire il primo passo verso l’assoggettamento del pubblico ministero al governo. La politica e l’avvocatura ritengono la riforma fondamentale per risolvere le patologie dell’iniziativa giudiziaria e scardinare il rapporto ritenuto “incestuoso” fra giudicante e requirente. La mia esperienza istituzionale e professionale non giustifica una presa di posizione “elettorale” per l’una o per l’altra parte; essa mi permette però di esprimere alcune preoccupazioni.

 

Le ragioni dello scontro sono in sostanza imputabili in eguale misura alla politica e alla magistratura. La politica non interviene concretamente su problematiche giudiziarie fondamentali della collettività e su temi divisivi. Assume però un approccio contraddittorio, perché – non solo con l’attuale maggioranza – ricorre ai proclami sulla necessità di “riformare la giustizia” e allo strumento penale per convincere l’elettorato di “aver fatto qualcosa”.

 L’approccio del Governo ai temi della politica criminale, dell’ordine pubblico e della sicurezza preoccupa: proliferano nuove fattispecie di reato e nuove aggravanti che contribuiscono a sfigurare l’equilibrio del codice penale. La magistratura non è esente da critiche. Dopo Tangentopoli ha interpretato il proprio ruolo come una sorta di controcanto alle patologie della politica, superando i contrasti interni. Sotto la patina dell’orgoglio esteriorizzato con il richiamo a figure di prestigio ha coltivato la frantumazione correntizia, che troppo spesso si è trasformata in autoreferenzialità e in protagonismo. La magistratura in parte si è illusa di prendere il posto della politica, nel momento in cui ha smesso di esaminare le responsabilità di fatti e persone ed è passata all’esame dei fenomeni. Nella situazione attuale di campagna elettorale permanente ogni questione viene riportata al confronto/scontro fra politica e magistratura.

È stato così ad esempio per la declaratoria di inammissibilità da parte della Cassazione di un ricorso proposto dalla Procura Generale di Palermo avverso il rigetto della richiesta di confisca di prevenzione nei confronti di un noto esponente politico, già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. La vicenda ha avuto particolare eco mediatica nonostante non siano state ancora depositate le motivazioni da parte della Suprema Corte. Si sono confusi però piani completamente diversi (la responsabilità penale per concorso esterno in associazione mafiosa; la “pericolosità sociale” e la legittima provenienza di trasferimenti in danaro ricevuti in epoca successiva alla condanna). Tutto ciò rischia di allontanare politica, avvocatura, magistratura e l’opinione pubblica dai veri problemi. Il processo penale sta perdendo appeal in favore del ricorso alle misure di prevenzione e in particolare alla c.d. “prevenzione mite”. La Corte costituzionale e la Corte E.D.U. riconoscono nella prevenzione patrimoniale una funzione ripristinatoria: colpire il c.d. “arricchimento illecito” da parte di soggetti “socialmente pericolosi”, condannati o meno per determinati reati.

In realtà la prevenzione patrimoniale sembra un utile strumento alternativo per supplire alle difficoltà di accertamento e alle lungaggini del processo penale. La “prevenzione mite” si concretizza nell’amministrazione giudiziaria quando l’impresa “agevola” indirettamente la verificazione di fatti illeciti al di fuori di essa. L’impresa committente concorda con il pubblico ministero le modalità per ripristinare la “salubrità” del contesto aziendale, al fine di evitare l’intervento dell’amministratore giudiziario. Si tratta di una negozialità non prevista dalla legge, rimessa all’interpretazione creativa di taluni uffici di Procura che sembra convenire all’impresa dal punto di vista reputazionale ed economico. Recentemente una nota impresa ha rifiutato di “scendere a compromessi” rivendicando il rispetto della legalità e invitando anche la politica ad intervenire a tutela del Made in Italy.

Senza scendere nel merito, la vicenda è emblematica di quali possano essere le conseguenze di un’applicazione creativa della legge per colpire fenomeni sociali anziché accertare fatti concreti. L’etica di impresa è assicurabile attraverso l’iniziativa giudiziaria in assenza di specifici obblighi di legge? Si rischia di promuovere una “moralizzazione d’impresa in balìa della discrezionalità. Anche la responsabilità penale “classica” è in crisi nell’odierno diritto penale d’impresa. La colpa generica si sostituisce a quella specifica; la responsabilità si spersonalizza; si registra la confusione fra responsabilità “collegiale” dell’impresa e responsabilità penale del singolo. La logica della prevenzione e dello svuotamento dell’accertamento nel fatto di tutti gli elementi costitutivi del reato sembra aver colpito anche il processo penale. Il dolo e la colpa non vengono accertate in modo rigoroso; spesso il problema si supera con argomentazioni legate al profilo del nesso di causalità. Se dalla condotta umana deriva un certo risultato, nell’ambito dell’impresa esso poteva essere quantomeno prevedibile. Insomma: l’imprenditore “non poteva non sapere”, “non poteva non aspettarselo”. Il rischio è che il problema della responsabilità possa esasperarsi con l’evoluzione del diritto penale dello “sviluppo sostenibile” e l’irrompere della tecnologia dell’intelligenza artificiale nel contesto delle condotte umane. La recente l. n. 132-2025 delega il governo alla introduzione di autonome fattispecie di reato per il mancato controllo dei sistemi di intelligenza artificiale, in taluni casi; lo delega inoltre su questo aspetto a “precisare” la responsabilità penale del singolo e dell’ente collettivo. Anche qui sembra riproporsi il rischio di uno svuotamento delle categorie classiche del diritto penale, in favore di forme precauzionali e prevenzionali.

Se questa è la tendenza, si rischia di trasformare il diritto penale del fatto in diritto penale del rischio; di favorire sempre di più l’intervento del giudice penale grazie alla previsione di reati di pericolo e alla valorizzazione della precauzione in luogo della repressione. Questo rischio non potrà essere evitato né dal Sì né dal No ad una riforma costituzionale che riguarda l’ordinamento giudiziario. Spero invece che avvocatura e magistratura possano tornare a confrontarsi per ragionare su queste criticità latenti del sistema, che rischiano di esasperarsi con l’ingresso delle nuove tecnologie nel processo e nell’accertamento delle responsabilità.

 

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