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la sentenza
Assolti dopo sei anni gli imputati del processo sulle acque del Gran Sasso. Storia di un'inchiesta evanescente
Crolla il processo teramano. Che intanto, però, ha macchiato l’immagine dei laboratori del Gran Sasso, il più importante centro di ricerca al mondo per la fisica dei neutrini e della materia oscura
Al termine di un processo di primo grado durato ben sei anni, il tribunale di Teramo ha assolto tutti e dieci gli imputati del processo sul sistema acquifero del Gran Sasso, tra cui gli ex vertici dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), di Strada dei Parchi e di Ruzzo Reti, accusati di aver provocato un pericolo di inquinamento della falda acquifera. Un’accusa evanescente, non fondata su elementi concreti, che però “negli ultimi sette anni ha gettato un’ombra sui laboratori del Gran Sasso, eccellenza italiana conosciuta in tutto il mondo”, dice al Foglio Fernando Ferroni, presidente dell’Infn dal 2011 al 2019, professore di fama internazionale, con anche un passato al Cern di Ginevra. Anche lui assolto perché il fatto non sussiste. “Il fatto che siano serviti sei anni per arrivare a una sentenza di primo grado, addirittura perché il fatto non sussiste, è inquietante”, aggiunge. Basti pensare che sei anni è il termine massimo entro il quale, secondo la legge italiana, un processo dovrebbe essere definito in tutti i suoi gradi di giudizio per non determinarne una “durata irragionevole”.
La vicenda giudiziaria sulle acque del Gran Sasso costituisce un po’ l’emblema di come l’Italia sia in grado di farsi male da sola, molto spesso tramite una magistratura che opera con teoremi fantasiosi. L’inchiesta teramana, nata nel 2018, ha infatti avuto una risonanza internazionale, macchiando l’immagine dei laboratori nazionali del Gran Sasso, che costituiscono il più importante centro di ricerca al mondo per la fisica dei neutrini e della materia oscura. Nati da una geniale intuizione di Antonino Zichichi e operativi dal 1987, i laboratori si trovano a 1.400 metri di profondità, sotto il massiccio roccioso del Gran Sasso, che funge da schermo per la maggior dei raggi cosmici provenienti dall’atmosfera che colpiscono continuamente la superficie terrestre, consentendo così lo studio di fenomeni estremamente rari.
L’accusa mossa dal 2018 dalla procura teramana è apparsa fin dall’inizio a dir poco singolare: agli imputati non veniva contestata la responsabilità su un presunto inquinamento delle acque sotterranee del Gran Sasso, bensì l’aver agito (o non agito) causando un pericolo di un inquinamento. Un’ipotesi astratta, dunque, peraltro non fondata su dati concreti. L’accusa, infatti, si innestava su alcuni rilevamenti di concentrazioni di sostanze contaminanti nelle acque sotterranee (come il diclorometano o il cloroformio) che, in realtà, non sono mai risultati al di sopra delle soglie massime previste dalla normativa che riguarda il trattamento delle acque reflue industriali, quali erano quelle utilizzate nei laboratori del Gran Sasso. Insomma, come ha evidenziato nel processo l’avvocato Nicola Pisani, difensore di Ferroni, ci si è trovati di fronte fin da subito a dei “non eventi di contaminazione”. Non si era verificata nessuna contaminazione delle acque, i valori delle sostanze pericolose risultavano al di sotto delle soglie, eppure i pm sono arrivati a ipotizzare un pericolo di inquinamento ambientale.
Analogamente, le accuse sono state avanzate anche nei confronti degli altri soggetti che, insieme ai laboratori dell’Infn, operano attorno alle sorgenti del Gran Sasso, cioè Strada dei Parchi, che gestisce l’autostrada A24 (che con le sue gallerie attraversa il massiccio), e la società acquedottistica Ruzzo Reti, che rifornisce il Teramano.
L’impianto accusatorio della procura teramana si è sgretolato davanti al tribunale dopo un’attesa di ben sei anni. Oltre a Ferroni, sono stati assolti Stefano Ragazzi (all’epoca direttore dell’Infn), Raffaele Adinolfi Falcone (allora responsabile del servizio ambiente dei laboratori), Lelio Scopa, Cesare Ramadori e Gino Lai (ex vertici di Strada dei Parchi), e Antonio Forlini, Domenico Giambuzzi, Ezio Napolitani e Maurizio Faragalli (all’epoca vertici di Ruzzo Reti).
Il professor Ferroni al Foglio parla di “fine di una favola”, quella messa in piedi dalla procura di Teramo. “Sono sempre stato tranquillissimo. Mi sembrava che le accuse formassero un castello di carte che non si reggeva neanche al primo piano”, aggiunge. “Per sette anni gli abruzzesi, e non solo, avranno pensato che nei laboratori del Gran Sasso si facesse chissà cosa. Questo è ciò che mi ha più provocato sofferenza: il fatto che l’immagine dell’istituto e dei laboratori, il più importante centro di ricerca al mondo per la fisica delle astroparticelle, sia stata macchiata per tutti questi anni”, conclude.