(foto Ansa)

l'editoriale del direttore

Esondare non è un atto dovuto. I due peccati di stato del caso Almasri

Claudio Cerasa

L’errore del governo Meloni è non aver usato subito il segreto di stato. L’aggressione alla politica della magistratura che pretende di sostituirsi ai governi anche sulla sicurezza nazionale

Infilarsi nei dettagli tecnici della vicenda Almasri può essere affascinante, può essere suggestivo, può essere appassionante ma alla lunga rischia di portare l’osservatore fuori strada, spingendolo a ragionare troppo sul fumo e a dimenticarsi di occuparsi dell’arrosto. Nella vicenda di Almasri, il generale libico ricercato dalla Corte penale internazionale, prima arrestato e poi rilasciato e infine rispedito con un volo di stato in Libia dal governo italiano, vi sono almeno due peccati di stato, per così dire, che sono molto diversi rispetto a quelli di cui si discute da ore nel nostro paese. Il primo peccato, che è all’origine dell’indagine avviata su Giorgia Meloni, Matteo Piantedosi, Carlo Nordio e Alfredo Mantovano (per gli ultimi tre c’è la richiesta di autorizzazione a procedere), riguarda l’automatismo con cui la procura di Roma ha scelto di trasferire al Tribunale dei ministri  gli avvisi di garanzia per i reati di favoreggiamento e peculato in relazione alla vicenda del rimpatrio del cittadino Almasri. L’automatismo evocato dalla procura di Roma e dall’Anm è quello famoso, “un atto dovuto”, e dietro quell’espressione vi è una delle più grande imposture della giustizia italiana: spacciare un’azione del tutto discrezionale della magistratura come un’azione del tutto inevitabile e usare lo scudo dell’obbligatorietà dell’azione penale per giustificare atti che riguardano scelte squisitamente soggettive. Nei meccanismi della giustizia, l’atto dovuto non esiste, non esiste mai, e non c’è atto che non debba essere frutto di un’attenta valutazione di un pubblico ministero, che deve valutare caso per caso se una denuncia è del tutto priva di rilevanza penale o costituisce una notizia di reato. Nel caso dell’indagine su Meloni, Piantedosi, Nordio e Mantovano, la procura di Roma, evocando la formula dell’atto dovuto, ha compiuto una scelta discrezionale, che avrebbe anche potuto non prendere, e per non assumersi le proprie responsabilità, ovvero aprire con disinvoltura un’indagine per i reati di favoreggiamento e peculato a carico di alcuni tra i più importanti esponenti del governo sulla base di un esposto di quindici righe con rimando alla rassegna stampa, in un momento tra l’altro in cui tre di quei soggetti indagati sono al centro di una importante riforma che riguarda il sistema giudiziario italiano,  la procura si è rifugiata nella  formula dell’ipocrisia.

 

Non poteva fare altro, spacciando per inevitabile ciò che invece era semplicemente discrezionale, e mostrando il vero volto di ciò che rappresenta oggi il feticcio dell’obbligatorietà dell’azione penale: uno scudo con cui i magistrati provano a trasformare valutazioni personali in scelte obbligate. E nel caso specifico la gravità della valutazione personale trasformata in scelta obbligata è particolarmente grave: la volontà, da parte della magistratura, di definire per via giudiziaria il perimetro di che cosa voglia dire difendere la sicurezza nazionale, di trasformare una valutazione morale in una tipologia di reato e di chiedere chiarezza su un fatto che riguardando un segreto dello stato non può che essere avvolto dalla riservatezza. Il secondo peccato di stato, per così dire, un peccato grave, riguarda la politica, e riguarda in particolare non una qualche scelta che avrebbe fatto il governo in questi mesi di passione sul caso Almasri, ma una scelta che purtroppo non ha fatto. Il caso Almasri, per chi non lo avesse ancora capito, è un caso che riguarda un tema che ha a che fare con la sicurezza nazionale, con la gestione dei nostri confini, con il rapporto con un paese cruciale nella lotta contro l’immigrazione illegale, ovvero la Libia, un rapporto fatto non solo di atti trasparenti ma anche di accordi politici la cui riservatezza non può che essere circondata talvolta da opacità, e l’errore commesso dal governo non ha a che vedere con una frase errata di un ministro in Parlamento, non ha a che fare con un fax non comunicato nel momento giusto a un ministro al dicastero, non ha a che fare con un aereo di stato messo al servizio di un generale ricercato dalla Corte penale internazionale. Ha a che fare unicamente con una decisione che il governo avrebbe dovuto prendere, subito, nell’immediato, e che invece non ha preso: porre il segreto di stato, un attimo dopo essere venuta a conoscenza della presenza di Almasri in Italia, e sottrarre al circo mediatico-giudiziario un fatto i cui contorni avevano tutto il diritto di rimanere riservati, e dunque opachi. Meloni, che fino a oggi non ha mai utilizzato per fatti pubblici l’arma del segreto di stato, ha pensato più a come proteggere la reputazione del governo, e la propria, piuttosto che pensare a come proteggere la zona grigia della sicurezza che uno stato ha il diritto e il dovere di difendere. Ed è da quella scelta, o meglio da quella non scelta, che a cascata sono nati tutti gli altri problemi: la richiesta a un ministro di spiegare in Parlamento quel che si poteva spiegare fino a un certo punto, la richiesta ai servizi segreti di essere trasparenti su provvedimenti che trasparenti non possono essere, il tentativo di rendere non opaca una storia che invece non poteva che essere riservata.

Le esondazioni delle procure sono spesso incontrollabili e non governabili. Ma quando una maggioranza sceglie di offrire il fianco a quelle esondazioni non proteggendo se stessa anche quando ne avrebbe la possibilità entra in una dimensione non meno pericolosa rispetto a quella in cui vivono le procure che scelgono, a colpi di atti dovuti, di sostituirsi alla politica: trasformare l’autolesionismo della politica in un pericoloso atto voluto.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.