(foto Ansa)

L'editoriale del direttore

Più prove schiaccianti meno aggettivi ammiccanti, grazie

Claudio Cerasa

L’inchiesta sul modello Milano, sulla cosiddetta “edificazione selvaggia” della capitale finanziaria italiana, è un caso di scuola. Da studiare con l’aiuto di un libro scritto da un ex magistrato che è stato, guarda caso, procuratore capo  proprio a Milano

Il circo mediatico-giudiziario è un mostro che ormai avete imparato a conoscere ed è un mostro che tendenzialmente si alimenta in tre modi diversi: un giornalismo particolarmente propenso a trasformare elementi indiziari in condanne definitive, un’opinione pubblica educata a considerare perfettamente legittima l’esondazione di una procura, una magistratura dolcemente abituata a condire le proprie ordinanze con una serie di espressioni, di aggettivi, di valutazioni attraverso cui costruire, in parallelo con il processo indiziario, un processo mediatico, per l’appunto, che rappresenta un passo fondamentale  per evitare che le indagini vengano trattate semplicemente come tentativi noiosi di andare a verificare semplici e poco notiziabili responsabilità personali. Il circo mediatico-giudiziario si nutre di veline, di fughe di notizie, di espressioni ammiccanti, e da quando i magistrati si sono specializzati nell’essere anche scrittori, giornalisti, opinionisti, conduttori, il linguaggio delle ordinanze ha smesso di essere freddo e asciutto e ha iniziato a essere più evocativo, più emozionale, più suggestivo, più enfatico, più aggettivato e più propenso a costruire, attorno ai capi di imputazione, narrazioni utili per andare a scaldare le prime pagine dei giornali, per animare i salottini dei talk-show, per rendere le proprie inchieste ancora più credibili: se credi al processo mediatico, alla cornice dell’inchiesta, sarai più portato a credere anche al processo indiziario. Il caso dell’inchiesta contro il modello Milano, contro l’edificazione così detta “selvaggia” della capitale finanziaria italiana, è un caso di scuola da studiare per capire quali sono i meccanismi con cui gli inquirenti tentano con  espressioni ammiccanti di dimostrare come la propria inchiesta si occupi non solo di un fatto ma anche di una storia più grande. Di un sistema, verrebbe da dire. Di solito il meccanismo utilizzato dal circo mediatico, per dimostrare la credibilità dei propri teoremi, è quello di ricorrere ad alcune parole, alcune frasi, alcuni aggettivi, alcuni avverbi, per creare una cornice patologica, all’interno della quale anche prassi potenzialmente ordinarie possono diventare straordinariamente malate. Nel suo libro dedicato ai rigorosi limiti dell’azione del pm (“Pubblico ministero”, Raffaello Cortina Editore, 2024), Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore capo a Milano, ha individuato alcuni paletti da tenere d’occhio. “Quando il pubblico ministero, invece di cercare i reati e le prove, si preoccupa di inseguire i mali della società, le devianze, i comportamenti eticamente riprovevoli, si rischia di travalicare il confine tra l’accertamento giurisdizionale e la missione morale, con l’effetto perverso di trasformare ogni inchiesta in un processo di costume”. E ancora: “La spettacolarizzazione dell’azione penale, alimentata da dichiarazioni enfatiche e da narrazioni suggestive, contribuisce a spostare l’attenzione dall’illecito accertato ai presunti disvalori, facendo perdere di vista la necessità della prova e la distinzione tra responsabilità penale e giudizi etici”. Da questo punto di vista, sfogliando tra le 420 pagine di richieste di misure cautelari presentate dalla procura di Milano al tribunale di Milano nell’ambito dell’inchiesta sull’urbanistica, non si fa molta fatica a individuare alcuni dei punti segnalati da Bruti Liberati.

 

Per avere un profilo criminoso, il piano urbanistico del comune diventa qualcosa di più. Diventa un “programma di intensiva speculazione edilizia con l’avallo dell’amministrazione”. Diventa una strategia “pianificata al dettaglio per saccheggiare la città”. Diventa un “sistema urbanistico deviato”. Diventa un “programma di devastante trasformazione a vantaggio di interessi privati”. Diventa “un sistema opaco di sinergie occulte che soffoca la dialettica pubblica”. Le delibere diventano “macroscopicamente illegittime”, sono “frutto di un abnorme conflitto di interessi”, oggi un fatto sospetto diventa “un episodio che si inserisce in un meccanismo corruttivo consolidato”. Ogni progetto sotto indagine, per creare suspense, diventa “solo la punta dell’iceberg”.  E oggi il rapporto tra i soggetti finiti sotto la lente della procura diventa un “sistema opaco di relazioni”, e a seconda dei casi il “sistema” può essere pervasivo. E i soggetti che vengono indagati portano avanti a volte un “utilizzo sfacciato del ruolo”. E gli interessi privati, naturalmente, non possono considerarsi solo come interessi privati, quale privato non vorrebbe provare a guadagnare il più possibile da un’operazione che lo vede coinvolto, ma diventa altro. Diventa un “procedimento inquinato da interessi privati”. E ogni piano urbanistico oggetto di sponsorizzazioni private viene “camuffato da procedura ordinaria”. E la demonizzazione del privato la si coglie anche in altri dettagli. Quando si parla di un progetto e si definisce “l’opera frutto di una colonizzazione privatistica dell’interesse collettivo”.

 

Quando si parla di una “sistematicità predatoria nell’uso delle deroghe al Pgt”. All’interno di un “patto di silenzio omertoso siglato tra professionisti e pubblici funzionari”. Quando emerge “una vocazione lucrosa incompatibile con la funzione pubblica”. Quando si nota che “la corrispondenza WhatsApp rivela un’iperbole di arroganza istituzionale”. E quando si nota che nel sistema descritto “si consuma una normalizzazione del favoritismo che scivola nel penalmente rilevante”. Lo schema è evidente. Le prove non bastano. Per renderle appetibili, credibili, raccontabili bisogna fare uno sforzo in più. Occorre trovare qualche etichetta suggestiva. Occorre concentrarsi sulle intenzioni. Occorre parlare più di omissioni che di azioni. Occorre evocare complotti. Occorre trovare la giusta chiave per individuare uno stigma morale con cui giudicare l’accaduto. Occorre, in altre parole, condannare moralmente gli indagati, in attesa che magari un giorno, accanto alla violazione dell’etica, vi sia anche un riscontro probatorio, in grado di trasformare i sospetti in prove. E in questo quadro, in questa cornice, tutto sembra anomalo. Il faccendiere, che di mestiere cerca di difendere gli interessi di chi rappresenta, diventa “spregiudicato”, diventa parte di una “rete occulta”, desiderosa di far muovere il denaro. E una volta descritta quella rete qualsiasi rapporto con quella rete diventa “delittuoso”, diventa un “sistema gravemente corruttivo”. Eppure di solito una regola c’è.

 

Quando un magistrato sceglie di condire un’inchiesta con un sovraccarico emotivo, utilizzando espressioni che nascondono giudizi, teoremi, prima ancora che prove, quando un’inchiesta tende a trasformare in un reato un comportamento, quando un comportamento non etico viene trasformato in un comportamento illecito, di solito il processo mediatico funziona, quello nelle aule di tribunale un po’ meno. “La giustizia penale – ricorda ancora Bruti Liberati – non interviene su ‘fenomeni’, su ‘eventi’, ma deve accertare specifici reati per i quali specifiche persone si provi siano responsabili”. Quando le prove sono deboli di solito gli aggettivi aumentano. E quando i magistrati cercano di trasformare eventuali condotte illecite di singoli individui in sistemi criminali da combattere capita spesso che sui giornali la narrazione faccia colpo. E capita spesso poi che di fronte alla prova dei fatti la narrazione sia un flop. Ma quando un paese si affida al processo mediatico può capitare a volte di accontentarsi del giudizio più importante, che si sviluppa e matura quando un giornalismo particolarmente propenso a trasformare elementi indiziari in condanne definitive incontra un’opinione pubblica educata a considerare perfettamente legittima l’esondazione di una magistratura dolcemente abituata a condire le proprie ordinanze più di aggettivi ammiccanti che di prove schiaccianti.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.