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Interrogatorio e condanna “preventivi”, un cortocircuito pericoloso

Francesco Petrelli

L’interrogatorio “preventivo” si sta trasformando in una “condanna pubblica preventiva”. Un cortocircuito pericolosissimo che rischia di pregiudicare un iter procedimentale garantista pensato a protezione e salvaguardia degli indagati

Lo aveva detto qualche anno fa la Corte di Cassazione, in una sua nota decisione sui fatti di una presunta corruzione metropolitana, che non si doveva correre il rischio di “criminalizzare” indiscriminatamente i rapporti fra imprenditori e politici. Ma nonostante il condivisibile monito, la trasposizione di qualsiasi relazione personale dal piano del lecito a quello dell’illecito, aiutati da norme e giurisprudenze che si prestano all’operazione, appare così agevole da rendere purtroppo del tutto ineffettiva quella autorevole raccomandazione. Abbiamo così visto crescere nelle cronache, di giorno in giorno, le ipotesi di corruzione e di induzione per via delle sollecitazioni trasformate in “pressioni politiche sistemiche e coordinate”. Sebbene per i fatti milanesi non si possa certamente parlare di una nuova “tangentopoli”, si assiste tuttavia a una radicalizzazione e cronicizzazione dei suoi peggiori effetti collaterali. Da un lato, l’universale eclissi (ce lo ha ricordato di recente anche l’Europa) di una mai interiorizzata presunzione d’innocenza, dall’altro la più estesa e doviziosa violazione del segreto dell’indagine in corso, con la conseguente gogna mediatico-internazionale che travolge impunemente politici, operatori, imprese e istituzioni.

   

Se una novità, certo non positiva, illumina il contesto giudiziario è quella costituita dalla sperimentazione collettiva dell’interrogatorio “preventivo”. Se un tempo la gazzarra mediatica si sarebbe infatti accanita sui provvedimenti cautelari a cose fatte, allo scattare delle manette, ora, in virtù della nuova legge sulle misure cautelari, gli atti dell’indagine vengono diffusi, commentati e giudicati prima ancora che il giudice decida. L’interrogatorio “preventivo” si trasforma così in una “condanna pubblica preventiva”. Un cortocircuito pericolosissimo che rischia di pregiudicare un iter procedimentale garantista pensato a protezione e salvaguardia degli indagati, e che invece, così esposto all’assalto dei media, finisce con l’inquinare e alterare un passaggio giurisdizionale delicatissimo che dovrebbe, invece, maturare nel più prudente silenzio e nel massimo riserbo. Fra sindaci, professionisti e imprenditori, c’è così chi scopre dai giornali di essere indagato o chi, sulla base di una manciata di battute opportunamente tratte da una chat, o di una qualche cointeressenza dedotta da un risalente rapporto professionale, si vede attribuito il presunto “sinallagma corruttivo”. Ovvio che un simile innesco cultural-giudiziario mette a disposizione tutta la sua devastante e irreversibile carica distruttiva ai danni della politica, come è già accaduto in molteplici importanti amministrazioni cittadine negli ultimi anni. E’ infatti ovvio che intorno ai più rilevanti interessi economici, che riguardano lo sviluppo urbanistico delle nostre città, fra costruzione di stadi, edilizia residenziale e centri commerciali e dirigenziali, si aprono necessariamente spazi di interlocuzione fra le imprese più rampanti e i decisori politico-amministrativi, nell’ambito dei quali il discrimine fra il giudizio etico-deontologico e quello del penalmente rilevante si fa inesorabilmente sottile. 

   

Il profilo dei limiti stessi della discrezionalità politica apre a questioni piuttosto sofisticate, la cui lettura appare tuttavia a sua volta inevitabilmente innervata da pregiudizi ideologici. Si tratta di questioni tanto complicate da sciogliere, quanto inevitabili all’interno di ogni moderna democrazia, altrettanto inevitabilmente produttive di conflitti fra i poteri dello stato, tanto più laceranti quanto più si mostra evidente – come nel nostro paese –  l’asimmetria nel rapporto tra gli stessi. Il problema, dunque, non è altrove ma va ricercato proprio nella nostra deleteria predilezione per lo strumento penale come unico strumento salvifico e come presunto rimedio democratico alle debolezze della politica e alla mancanza di una condivisa idea di sviluppo civile.

 

Francesco Petrelli è presidente dell’Unione camere penali italiane
 

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