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L'editoriale del direttore

Il guaio di una magistratura che trasforma il profitto in reato

Claudio Cerasa

La criminalizzazione del capitalismo: più è alto il guadagno, più si rafforza il sospetto. Perché è grave il silenzio di fronte ai pm che trasformano la ricchezza in una colpa fino a prova contraria

Capitale della finanza ieri, capitale del moralismo oggi, capitale dell’anticapitalismo domani. Tra gli elementi di maggiore  interesse che emergono con forza dalle ultime inchieste portate avanti dalla procura di Milano ce n’è uno importante che riguarda un tratto non sufficientemente valorizzato nel racconto di questi giorni. Il tema è ricorrente, è costante, è carsico ed è un filo conduttore utile a decifrare un fenomeno con cui prima o poi toccherà fare i conti: la criminalizzazione, da parte della magistratura, non solo del mestiere della politica ma anche della logica del profitto. Se si ha la pazienza di leggere con attenzione ciò che emerge dalle pagine delle ultime due grandi inchieste della procura di Milano, quella su Loro Piana e quella sull’urbanistica, si capirà con chiarezza come gli inquirenti, nella loro attività giudiziaria, non si siano limitati a fare tutto il necessario per provare a individuare eventuali responsabilità individuali. Ma abbiano scelto di fare un passo in avanti per porsi al servizio di una causa più grande: mettere la magistratura al servizio di una battaglia etica, sociale, moralizzatrice, il cui fine ultimo è quello di provare a riequilibrare gli squilibri della società.

 

                                     

 

Nel caso specifico, il filo che tiene insieme l’indagine su Loro Piana, gigante della moda, dunque del lusso, e l’indagine contro il cosiddetto sistema Milano, emblema secondo la procura dello strapotere dei privati nella città, è la trasformazione della logica del profitto in un peccato fino a prova contraria, attraverso un approccio giudiziario che tende a trasformare comportamenti imprenditoriali finalizzati alla creazione di ricchezza in comportamenti di per sé sospetti, potenzialmente illeciti, certamente immorali, al netto dei rilievi penali. In entrambe le inchieste, il profitto non è l’effetto dell’attività d’impresa ma è la prova della sua natura “predatoria”: più è alto il guadagno, più si rafforza il sospetto. Nel caso Loro Piana, l’idea che un’impresa che affida parte della produzione a fornitori terzi sia comunque responsabile diretta di tutto ciò che accade in ogni singolo laboratorio è un modo come un altro per dire che il capitalismo è colpevole a prescindere di un reato molto grave: l’immoralità (“l’amministrazione giudiziaria”, scrivono i magistrati, è disposta come misura “necessaria per presidiare l’etica industriale”). Nel caso dell’urbanistica a Milano, il contatto tra pubblico e privato all’interno delle strategie finalizzate allo sviluppo di una politica urbanistica diventa la spia, la prova, di un sistema deviato, di un programma intrinsecamente sospetto “di intensiva speculazione edilizia”. In entrambi i casi, la ricerca di “occasioni di investimento ad alta redditività” diventa un’aggravante di un eventuale reato e la sola presenza di “elevati profitti” diventa già un indizio di illiceità: avidità, accaparramento, finalità predatorie, sproporzione evidente tra mezzi e redditi – tutte parole che compaiono nelle carte.

Qualche esempio, dalle ordinanze, per capire di cosa stiamo parlando. Caso Loro Piana. Pagina quattro: “Il modello imprenditoriale adottato appare fondato sulla massimizzazione del profitto mediante l’esternalizzazione sistematica delle lavorazioni”. Pagina cinque: “L’intera organizzazione della produzione è funzionale all’abbattimento dei costi da lavoro dipendente”. Pagina venti: “Il ricorso a subappalti e terziarizzazione della produzione non è episodico, ma costitutivo del modello economico”. Pagina ventuno: “Il sistema di governance adottato appare ispirato a logiche tipiche del capitalismo estremo, non compatibili con i valori costituzionali del lavoro”. Pagina ventitré: “La struttura organizzativa rispecchia una forma avanzata di dissimulazione del rapporto tra centro del brand e periferia del lavoro”. Caso urbanistica. Pagina cinque: “Il patrocinio gratuito del Comune allo studio Marinoni si inseriva all’interno di una strategia urbanistica finalizzata alla valorizzazione di interessi privati”. Pagina sette: “Il programma di intensiva speculazione edilizia coinvolgeva l’amministrazione comunale quale leva per il vantaggio economico di soggetti privati”. Pagina ventisette: “I contenuti dello studio Marinoni rivelano una visione ideologica del territorio improntata al profitto”. Pagina ventisette: “La regia strategica degli interventi urbanistici era fondata su una logica affaristica, orientata alla massimizzazione del vantaggio di pochi”. Pagina cinquantaquattro: “L’intreccio tra l’elaborazione progettuale e le decisioni amministrative rivela un uso distorto della pianificazione a fini di arricchimento”. La trasformazione della logica del profitto in un peccato e in un reato fino a prova contraria si manifesta nei dettagli. E’ nella redditività trasformata in focolaio possibile di corruzione. E’ nell’arricchimento “estremo” dei privati che diventa un terreno di sospetti potenziali. E’ nella volontà diffusa di criminalizzare il capitalismo, come se questo fosse un termometro utile a misurare la possibile presenza di un ambiente criminogeno.

 

                        

 

La presenza di una magistratura che, oltre che a criminalizzare la politica, cerca anche di criminalizzare il capitalismo, è una costante presente in alcune derive della giustizia moderna. Ed è una costante che si ritrova facilmente ogni volta che un magistrato usa in modo disinvolto alcune misure di prevenzione, come i sequestri patrimoniali, che nascono in Italia all’interno di una logica diversa, all’interno cioè della lotta della guerra contro la criminalità. Quegli strumenti, come ricordava ieri sul Foglio Giovanni Maria Flick, sono stati messi al servizio anche di altre battaglie giudiziarie, con le quali la magistratura, dall’alto di una forma estrema di visione etico dirigista, ha iniziato a compiere piccoli passi per arricchire le proprie inchieste con giudizi morali utili a orientare non solo il mondo della politica ma anche quello delle imprese, all’interno di una logica ormai ricorrente in cui il magistrato non è più solo il tutore della legalità ma è il tutore della lotta del bene contro il male. Combattere politicamente per avere una maggiore giustizia sociale non è un reato. Farlo per via giudiziaria è qualcosa in più di un peccato: è la certificazione finale di cosa rischi un paese che non solo trasforma ogni sospetto in una condanna ma arriva a trasformare la ricchezza in una colpa molto simile a un possibile reato. Capitale della finanza ieri, capitale del moralismo oggi, capitale dell’anticapitalismo domani. Difendere Milano oggi significa anche non arrendersi alla deriva di una giustizia che non si limita a occuparsi di responsabilità individuali ma si sente investita di un ruolo più grande: definire in modo discrezionale cosa sia bene e cosa sia male e mettere il bazooka della giustizia a servizio della propria ideologia.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.