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L'editoriale dell'elefantino
Sofri, Violante, il giustizialismo. Il manifesto garantista di Ezio Mauro
Il diritto dell’accusato a un processo equo, fondato su materiali ostensibili, e il rigore richiesto agli inquirenti. Sul caso Sofri, l’ex direttore si esalta e ricorda cosa si rischia con una verità privata custodita nell’ombra del giustizialismo
Violante deve dire quello che sa del caso Calabresi, Sofri ha fatto il suo quando gli ha chiesto di esporre in pubblico una presunta “prova” a suo carico circondata dal segreto personale e da una nozione di “lealtà” molto vicina alla cultura dell’omertà. Non si può che essere felici del manifesto di Ezio Mauro per una giustizia che non si basi sull’omissione di verità o, meglio ancora, come lui scrive, su “una riserva privata di verità custodita nell’ombra”. Mauro è il papa di Repubblica, l’ha diretta per vent’anni, ne ha definito e costruito pezzo a pezzo la cultura giuridica, ha dato impulso e coordinato le sue inchieste e le sue campagne, inoltrandosi in quella Repubblica penale che è risultata una copia conforme della giurisdizione giornalistica. Con Francesco Merlo approda ora Mauro all’idea di una lunga stagione italiana “del sapere e non dire, del rivelare nascondendo”, con quella che è definita perfettamente come “una sproporzione” che “diventa ancora più forte proprio quando esce dal travagliato iter giudiziario e prende la forma di un rendiconto davanti alla pubblica opinione”.
Non ci sarebbe alcunché da aggiungere, se non che il cuore di questa posizione è nel fondo il garantismo giuridico, cioè il diritto dell’accusato a un processo equo, fondato su materiali tutti ostensibili, e il rigore davanti alla legge richiesto agli inquirenti, ai testimoni e agli autori del rendiconto permanente “davanti alla pubblica opinione”. Di questa materia sono fatte le polemiche ultratrentennali sulla giustizia in Italia, con incroci che riguardano la gestione del segreto investigativo, il leak alla stampa e il coordinamento dei mass media in campagne giustizialiste, la detenzione a scopo di verbalizzazione e molto altro.
Al di là di ogni dissenso, e ce n’è in abbondanza, sul carattere assunto in questi decenni dalla giustizia penale, sul rapporto tra questa e la politica e i diritti individuali, sul rapporto tra questa e la storia repubblicana, e sulla funzione dei media nella relazione speciale che ha cambiato il volto del paese e ha distrutto il suo sistema politico, emerge dal manifesto garantista dell’ex direttore di Repubblica che il vero e drammatico problema della giustizia italiana è in quel particolare tradimento del patto di fiducia, di eguaglianza di fronte alla legge e di tutela della verità come cosa pubblica consistente nell’onnipotenza, dentro il processo e a lato del processo, nel rendiconto mediatico, dell’accusa penale. La famosa questione dell’agenda rossa di Borsellino, agitata come bandiera di verità sulla base di convinzioni private non ostensibili, è stata all’origine di processi che volevano riscrivere la storia del rapporto tra stato e mafia nel senso di una collusione criminale. Solo un sistema borbonico può sostenere undici processi, comprese due assoluzioni e motivazioni suicide, per definire un verdetto su una cause célèbre, un delitto politico, che da cinquantatré anni il paese si porta dietro come un mistero avvolto in un enigma. Nella giurisdizione anglosassone non sarebbe mai potuto accadere.
Quando nel primo processo contro Sofri e gli altri accusati dell’omicidio Calabresi si scoprì a sorpresa in aula che non era stato il teste d’accusa a chiamare i carabinieri, ma invece erano stati i carabinieri ad andare da lui, qualunque giudice americano avrebbe interrotto e sospeso il dibattimento per un vizio di forma e di sostanza nelle garanzie di accertamento della verità processuale. E dopo un annullamento e una assoluzione, la regola di Common Law del double jeopardy o in latinorum del ne bis in idem avrebbe comportato l’interruzione di una saga giudiziaria di stampo poliziesco. La “prova non ostensibile”, proclamata da un uomo delle istituzioni e tutelata nell’ombra come riserva privata di verità (Mauro), si capisce solo in questa dimensione, non avrebbe retto la verifica di correttezza e di serietà per un solo istante se non in un regime giurisdizionale profondamente inquinato dal rigetto del garantismo e dalla logica dell’insinuazione e dell’accusa non dimostrabile in una forma accettabile per accusa e difesa. Sperabile che il manifesto di Mauro possa servire a riesaminare sine ira ac studio, come si dice, l’opposizione militante alla divisione delle carriere tra magistrati dell’accusa e giudici, per arrivare a un sistema di giustizia in cui non si debba aspettare decenni per appurare che la non ostensibilità di una prova addotta in funzione di accusa è un residuo borbonico, “una riserva privata di verità custodita nell’ombra”.



L'editoriale del direttore