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circo mediatico-giudiziario

Gratteri night show

Ermes Antonucci

Lo sbarco in tv del procuratore di Napoli come conduttore è il trionfo della degenerazione mediatica della giustizia. La passione per i riflettori, le conferenze stampa spettacolo, le maxi indagini e i maxi flop: viaggio nel “gratterismo”

Che Nicola Gratteri avesse una passione per i riflettori era chiaro a tutti, fin da quando (ormai oltre un decennio fa) ha cominciato a convocare conferenze stampa per illustrare con vanto i risultati delle maxi inchieste da lui condotte, elencando le decine di persone indagate, arrestate e perquisite, al fianco di rappresentanti delle forze dell’ordine con distintivi in bella vista, come dei plotoni di esecuzione. Oppure quando ha iniziato a essere ospite fisso dei talk-show televisivi, commentando i fatti di attualità, attaccando le riforme pro-impunità della politica (il male) e difendendo le virtù della magistratura (il bene), in perfetto stile davighiano. Oppure quando ha cominciato a girare l’Italia per presentare i suoi libri contro la ’ndrangheta  (se ne contano ventuno, ma potremmo sbagliare per difetto), scritti a quattro mani con un giornalista, sempre lo stesso, catturando lungo lo stivale l’attenzione anche delle testate locali. Ma che questa predisposizione mediatica ed egoica potesse portare Gratteri, cioè un magistrato non in pensione ma che attualmente ricopre l’incarico di procuratore di Napoli, a finire nel palinsesto della prossima stagione di La7, come conduttore di una trasmissione (si chiamerà “Lezioni di mafia”), nessuno avrebbe potuto immaginarlo. Persino nel paese che più di tutti, a partire da Mani pulite, ha conosciuto il trionfo della giustizia mediatica e l’ascesa dei pubblici ministeri come protagonisti della vita pubblica. 

 

“Penso che il magistrato abbia sempre il dovere di parlare, soprattutto in un paese che ha scelto di convivere con le mafie”, ha detto Gratteri al Corriere della Sera per motivare il suo coinvolgimento nel progetto (che dovrebbe avvenire a titolo gratuito), confermando la visione messianica che nutre del proprio lavoro. Il procuratore di Napoli, un po’ Batman e un po’ Santoro, è convinto di vivere in una nazione connivente con le mafie, quindi da salvare. Come? Conducendo indagini (meglio se maxi), e un programma in televisione of course. Un soldato. Non in trincea, bensì all’aperto, su un palcoscenico. 

 

Gratteri ha spiegato che nel suo programma televisivo parlerà “di mafie, della loro storia e delle loro dinamiche nazionali e internazionali”. Come se le mafie fossero tutte uguali, interscambiabili, e quindi un pubblico ministero che ha passato la sua carriera contrastando quasi esclusivamente la ’ndrangheta  in Calabria (da un anno e mezzo si occupa anche di camorra a Napoli) sia in grado di descrivere la storia e i meccanismi di funzionamento di tutte le associazioni mafiose del mondo. Una convinzione un tantino supponente, perfettamente coerente con il personaggio. Così la domanda sorge spontanea: per raccontare con precisione le dinamiche delle mafie, non sarebbe stato più opportuno chiamare uno storico, un sociologo o un giurista, anziché un pm? Ma l’opportunità non porta ascolti televisivi, che una star come Gratteri invece trascina a sé. 

 

In attesa di dettagli sulle puntate che andranno in onda su La7 (ne sono state annunciate quattro), è certo che il racconto delle mafie che svolgerà il Gratteri-conduttore sarà un racconto di parte, proprio perché si baserà sull’esperienza maturata dal Gratteri-pm, cioè del soggetto che nel processo svolge per definizione un ruolo di parte, con la sua forma mentis inquisitoria, incompatibile con la terzietà propria del giudice. Un soggetto che, come dimostrano i numeri (la metà dei processi si conclude con l’assoluzione degli imputati, per non parlare della fase delle indagini), non sempre ha ragione. E il Gratteri-pm (prima a Reggio Calabria e poi a Catanzaro, in cui è stato capo della procura dal 2016 al 2023, anno in cui è diventato procuratore di Napoli), questo lo sa bene, visti i risultati spesso disastrosi delle sue inchieste. 

 

Tanto per citare alcuni esempi (sempre per difetto): la maxi operazione contro la ’ndrangheta compiuta nel 2003 a Platì, nella Locride, con 125 misure di custodia cautelare (alla fine solo in otto vennero condannati); l’operazione “Circolo formato” del 2011, con l’arresto di quaranta persone, tra cui il sindaco di Marina di Gioiosa Ionica e diversi assessori (gli amministratori locali poi vennero assolti); l’ancora più nota operazione “Rinascita-Scott”, lanciata nel 2019 con 334 persone destinatarie di misure cautelari (in primo grado sono stati assolti 131 imputati su 338, praticamente uno su tre); l’inchiesta del dicembre 2018 che sconvolse la politica calabrese, con le accuse di corruzione e abuso d’ufficio contro l’allora presidente della regione, Mario Oliverio, poi assolto da tutte le accuse.

 

L’operazione “Rinascita-Scott” costituisce senza ombra di dubbio la sintesi perfetta del “gratterismo”, tra manifestazioni di vanità, conferenze stampa show, messa alla gogna degli indagati, alimentazione di un processo mediatico parallelo e risultati giudiziari non esaltanti ottenuti infine quasi nel silenzio generale. Insomma, il preludio della trasformazione – inattesa, ma non sorprendente – di Gratteri da magistrato inquirente a pm-conduttore. I primi risultati della maxi inchiesta (oltre 300 persone arrestate, 416 indagati, 13.500 pagine di ordinanza di custodia cautelare, 5 milioni di fotocopie delle ordinanze consegnate agli arrestati con camion blindati) vennero annunciati in una conferenza stampa nel dicembre 2019 che è rimasta nella memoria di molti. Con la solita modestia, Gratteri definì l’indagine “la più grande operazione dopo il maxi processo di Palermo”, paragonandosi di fatto agli eroi antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Questa indagine – spiegò sempre l’allora procuratore di Catanzaro – è nata il 16 maggio 2016, il giorno in cui mi sono insediato. Per me era importante avere un’idea, una strategia, un progetto, un disegno, un sogno, una rivoluzione. Questo ho pensato il primo giorno: smontare la Calabria come un trenino Lego e poi rimontarla pian piano”. Anziché perseguire i reati, il procuratore con l’elmetto si prefiggeva di “smontare” una regione come un giocattolo. Affermazioni singolari, che tuttavia non suscitarono alcuna reazione da parte delle istituzioni (Consiglio superiore della magistratura in testa). Anche perché nessuno ha mai avuto l’ardire di contestare le idee e i metodi di un magistrato costretto a vivere sotto scorta e che si paragona a Falcone e Borsellino. 

 

Ancor prima che il processo cominciasse, circa 140 provvedimenti di arresto vennero annullati o revocati dai giudici. Seguirono le prime assoluzioni in uno dei tronconi dell’inchiesta, tra cui quelle di Nicola Adamo, ex deputato e già vicepresidente della regione Calabria, dell’ex consigliere regionale Pietro Giamborino e del nipote Filippo Valia. Per svolgere il dibattimento dell’enorme filone principale del processo venne invece costruita un’apposita aula bunker a Lamezia Terme, costata cinque milioni di euro e poi diventata inagibile a causa di un’alluvione. Appena fuori dall’aeroporto di Lamezia Terme comparvero persino delle insegne stradali (autorizzate da non si sa chi) con la scritta “Aula bunker” e l’indicazione della direzione da seguire. Come se il turista appena giunto in Calabria, anziché essere indirizzato verso i musei, i parchi archeologici (dove sono esposte due statue di poca importanza come i Bronzi di Riace) o anche le destinazioni balneari, dovesse essere accompagnato in un’aula di giustizia dove si celebrava un processo contro la  ’ndrangheta. Per le strade della regione vennero affissi anche dei manifesti in cui veniva pubblicizzata la trasmissione televisiva di un’emittente locale, intitolata in modo emblematico “Rinascita Scott, il processo alla ’ndrangheta”. Un grande spettacolo mediatico, parallelo al dibattimento, che dopo quattro anni si è concluso in primo grado con l’assoluzione di un terzo degli imputati. 

 

Sono i numeri, difatti, a condannare ogni volta il metodo di indagine usato da Gratteri, quello della pesca a strascico. Numeri dietro i quali si celano le vite devastate di persone arrestate o accusate ingiustamente. C’è Mario Oliverio, ex governatore della Calabria, indagato per due volte con gravi accuse (come corruzione) in inchieste avviate da Gratteri ed assolto entrambe le volte, dopo aver assistito alla demolizione della propria immagine e della propria carriera politica. C’è Domenico Tallini, ex presidente del Consiglio regionale della Calabria, accusato e poi assolto definitivamente dalle accuse infamanti di concorso esterno in associazione mafiosa e scambio elettorale politico mafioso. Accuse che gli costarono anche un mese ai domiciliari. “E’ stato come se mi fossero passati addosso dieci carri armati”, confidò Tallini al Foglio, raccontando il calvario vissuto per quattro anni. C’è Mauro Luchetti, presidente del gruppo di comunicazione ed eventi Hdrà, accusato da Gratteri di peculato insieme a Oliverio e all’ex parlamentare Ferdinando Aiello, e poi assolto, e che a causa dell’inchiesta ha visto crollare il proprio fatturato e ha dovuto licenziare decine di dipendenti. Ci sono i tanti amministratori locali e imprenditori assolti nel processo denominato “Stige”, che partì da una maxi operazione nel gennaio 2018 con 169 arresti. Anche all’epoca Gratteri non nascose la sua soddisfazione, definendo l’indagine “la più grande operazione fatta negli ultimi ventitré anni”. Un’indagine “da portare nelle scuole di polizia giudiziaria e in quella della magistratura”. L’elenco dei malcapitati e delle affermazioni altisonanti di Gratteri potrebbe continuare per pagine e pagine. Tanto che qualcuno potrebbe chiedersi: il Gratteri-conduttore nel suo programma televisivo parlerà anche della mafia che lui stesso ha accostato ingiustamente alla figura di Tallini, o agli imputati dell’inchiesta “Stige” o “Rinascita Scott”? 

 

Ad aprile in una delle tante ospitate serali su La7, che ben presto l’avrebbe ingaggiato come conduttore, Gratteri ebbe modo anche di attaccare il nostro giornale, accusandoci di aver “riportato dati totalmente falsi” sul record di indennizzi per ingiusta detenzione versati in Calabria dal 2018 al 2024, a causa delle tante maxi indagini poi finite male: 78 milioni di euro sui 220 milioni complessivi versati dallo stato, il 35 per cento del totale. Un record, confermato anche nel 2024: su 26,9 milioni complessivi, 8,8 milioni (il 33 per cento) sono stati versati per risarcire chi è stato incarcerato o messo ai domiciliari ingiustamente in Calabria. I numeri, dispiace per Gratteri, sono tratti dall’ultima relazione pubblicata dal ministero della Giustizia (se vuole può querelare Nordio). Il procuratore, parlando di sé in terza persona, aggiunse pure che “non c’è una sola ingiusta detenzione attribuibile a Nicola Gratteri”. Un’altra bufala, come spiegammo raccontando la storia dell’imprenditore Francesco Zito, arrestato nella maxi operazione “Stige” condotta proprio da Gratteri, recluso per 26 giorni in carcere, ristretto altri 152 giorni ai domiciliari, infine assolto e indennizzato per l’ingiusta detenzione con 47 mila euro. Se questa è l’attenzione posta al banalissimo principio della verità dei fatti, c’è da aspettarsi una “storia delle mafie” piena di sorprese.

 

Intanto, c’è da prendere atto dell’ultima fase evolutiva della giustizia mediatica in Italia. “I giuristi hanno sempre sottolineato come il clamore mediatico finisca per generare due giustizie parallele: una, che segue le norme della Costituzione e della legge, che è nelle mani dei magistrati; e un’altra, che invece usa effetti distorsivi e modalità spesso non conformi alla legge, che è nelle mani dei giornalisti. A questo punto dobbiamo ritenere che le due giustizie si siano fuse l’una con l’altra”, dice al Foglio Ennio Amodio, avvocato penalista e professore emerito di Procedura penale all’Università di Milano. “Dopo aver alimentato per tanti anni la giustizia spettacolo, i magistrati finiscono per saltare il fosso e diventare essi stessi protagonisti dello spettacolo giudiziario. Credo che questo sia contro ogni regola di estetica e opportunità, tenuto conto di ciò che la Costituzione impone. Il magistrato che andrà a fare il conduttore televisivo potrà pure sapere contenersi, ma agirà in un ambiente profondamente diverso da quello istituzionale. L’ambiente televisivo suggerisce ipotesi, modalità di intervento e aspetti operativi che sono incompatibili con quelli della sede giudiziaria”, spiega Amodio. 

 

Secondo il giurista, il fenomeno dell’ascesa del pm a conduttore televisivo rischia di intaccare ancora di più l’immagine della giustizia da parte dell’opinione pubblica. “Ciò che accade è la modificazione dell’aspettativa di ruolo, come sottolineano gli psicologi.  Ciò che normalmente si aspettano i cittadini è vedere il magistrato con la toga addosso, che segue delle regole precise nell’interesse di far rispettare le norme del codice e prevenire i fatti criminosi. Vedere un magistrato che dismette la toga per seguire un interesse di spettacolo crea sconcerto e disorientamento. Lo trovo gravissimo”. 
Lo show può cominciare, anzi, riprendere.

  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto "I dannati della gogna" (Liberilibri, 2021) e "La repubblica giudiziaria" (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]