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scherzi del destino
La Cassazione respinge il ricorso di Davigo contro la condanna: pretestuoso. E lo multa
La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso straordinario dell'ex pm contro la condanna definitiva, condannandolo anche a una sanzione perché i motivi sono pretestuosi. E pensare che per anni Davigo ha sostenuto che in Italia si fanno troppe impugnazioni e che, se ritenute infondate, dovrebbero portare a condanne più pesanti
Sono state depositate le motivazioni con cui la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso straordinario presentato da Piercamillo Davigo contro la sentenza della Cassazione che lo aveva condannato definitivamente per rivelazione del segreto per i verbali della della cosiddetta “loggia Ungheria”. Il ricorso, come è noto, è stato dichiarato inammissibile. Ma la II sezione penale della Cassazione va oltre e condanna il loro ex collega (Davigo è stato proprio presidente della II sezione penale), oltre al pagamento delle spese legali, anche a una sanzione perché il ricorso è pretestuoso: i supremi giudici condannano Davigo “al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila”, recita la sentenza.
La legge prevede che, quando un ricorso è dichiarato inammissibile, la parte che lo ha proposto è condannata al pagamento di una sanzione a favore della cassa delle ammende da 258 a 2.065 euro, che può essere aumentata tenuto conto dell’inammissibilità del ricorso. Nel caso di Davigo, vista la pretestuosità dell’impugnazione, i giudici hanno deciso di infliggere un’ammenda superiore al massimo: tremila euro.
In pratica, nel ricorso straordinario – che è un evento molto raro, meno dell’1 per cento dei circa 50 mila procedimenti annui della Suprema corte – Davigo, assistito dagli avvocati Davide Steccanella e Franco Coppi, sosteneva che la VI sezione penale della Cassazione era incorsa in un “errore di fatto”: non avrebbe affatto considerato alcuni motivi del ricorso di Davigo che, se valutati, avrebbero portato a un giudizio di assoluzione. Si tratta, in sostanza, della svista o del clamoroso “errore percettivo” che consente, con il ricorso straordinario, di rimettere in discussione una sentenza definitiva della Cassazione.
Davigo sosteneva che non era vero che aveva scelto di non rivolgersi al procuratore generale di Milano perché non lo riteneva affidabile, come stabilito dalla sentenza di condanna, ma che se lo avesse fatto avrebbe inevitabilmente fatto conoscere il contenuto dei verbali secretati, che Davigo si era fatto consegnare dal pm Storari, a una persona direttamente coinvolta come il consigliere del Csm Sebastiano Ardita. Secondo quanto argomentato da Davigo, infatti, ricevuti gli atti, il pg di Milano sarebbe stato costretto a trasmetterli al Csm.
I giudici di Cassazione, in 13 pagine di sentenza, spiegano che non è affatto così. I loro colleghi della Cassazione – come peraltro prima avevano fatto i giudici di primo grado e di appello di Brescia – avevano valutato tutto. “Nella sentenza impugnata si rimarca come sia stato lo stesso Davigo, nel corso del suo esame dibattimentale, a riferire che sconsigliò a Storari di rivolgersi al procuratore generale, in ragione dell’inaffidabilità della persona che ricopriva quella carica”. Pertanto il fatto “è vero, reale e non contestato, così che in relazione a esso non si configura alcun errore percettivo” dei giudici. Anzi: “La decisione della Corte di cassazione è fondata su un elemento di fatto della cui realtà e corretta percezione non si dubita e che è stata ritenuta dimostrativa della consapevolezza della scelta illecita operata dall’odierno ricorrente”.
Per giunta, anche l’altra scusa di Davigo, la teoria paradossale secondo cui sarebbe stato costretto a rivelare il segreto per evitare che il segreto venisse rivelato (tramite la trasmissione degli atti al pg e poi da questi al Csm), i giudici scrivono che “il tema che si assume omesso, invece, è stato puntualmente affrontato nella sentenza impugnata”. Non è che i giudici hanno condannato Davigo perché non hanno capito o si sono distratti, lo hanno condannato proprio perché hanno valutato attentamente.
Per questo ricorso pretestuoso, qualora Davigo si fosse trovato Davigo come presidente della II sezione della Cassazione, avrebbe ricevuto una multa ben più pesante. Nel libro “Giustizialisti” (Paper first), scritto insieme all’allora amico Sebastiano Ardita – la vittima di Davigo in questo processo (oltre che ironico, il destino sa essere sadico) – Davigo scriveva che in Italia si fanno troppe impugnazioni, in particolare alla Suprema corte: “I ricorsi per Cassazione in materia penale sono cresciuti in modo costante dal 2007 al 2014, passando da 43.732 a 55.822, per poi ridiscendere a 53.539 nel 2015”, scriveva.
Lui, in uno stesso processo, di ricorsi in Cassazione ne ha fatti ben due (uno ordinario e uno straordinario), che potrebbero arrivare a tre dopo l’appello-bis, che si celebrerà nei prossimi mesi per la rivelazione del segreto ai membri del Csm. Mentre all’estero, aggiungeva Davigo, non è così: “Non vengono ammessi e anzi vengono letteralmente bollati come ‘perdita di tempo’”. Ecco, raramente accade anche in Italia. Il suo caso è uno di questi.
In un’intervista al Fatto quotidiano, anni fa, Davigo disse che “nei paesi di Common law c’è il reato di oltraggio alla Corte per chi fa perdere tempo inutile. Basterebbe consentire al giudice di valutare anche le impugnazioni meramente dilatorie per aumentare la pena”. Purtroppo ora è un pregiudicato, ma per sua fortuna Davigo non è stato giudicato da un Davigo con un codice penale riformato secondo Davigo, altrimenti oltre a una multa più salata avrebbe ricevuto anche una condanna più pesante.