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l'analisi

L'insostenibile duplicità e complicità di Giovanni Brusca, boss “pentito” che Falcone non aveva previsto

Giuseppe Sottile

Da carnefice a testimone-chiave, ha attraversato tutti i processi simbolo dell’antimafia. Ma la sua libertà oggi interroga sul confine tra giustizia e complicità

Ma la legge è davvero quella cosa lì: dura ma giusta, severa ma uguale per tutti? Se vi indignate perché il più sanguinario dei pentiti di mafia è tornato in libertà dopo 25 anni di carcere e quattro di libertà vigilata, ponete direttamente a lui questa domanda. Sì, proprio a lui, a Giovanni Brusca, il picciotto di San Giuseppe Jato, in quel di Corleone, che tra il 1975 e il 1992 ha commesso allegramente oltre centocinquanta omicidi. Ha ordinato lui di incaprettare e poi sciogliere nell’acido un ragazzino di tredici anni, un picciriddu, la cui colpa era solo quella di essere figlio di un malacarne che, messo con le spalle al muro aveva spifferato in procura intrighi e segreti delle cosche. Ed è stato lui a scatenare col telecomando l’inferno di Capaci, l’attentato nel quale morirono dilaniati dall’esplosione il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Ora che è libero come il vento, chiedetegli, che cos’è la giustizia in Italia. Lui conosce ogni aula, ogni caverna, ogni passaggio occulto dell’immenso labirinto che noi tenacemente chiamiamo ancora stato di diritto. 


Sa che ci sono sbirri che non danno pace ai latitanti e che ogni giorno mettono la propria vita in gioco per catturarli; ma può anche raccontarvi fatti e misfatti dei pubblici ministeri che giocano poi con i pentiti, che li avvolgono con lusinghe e promesse pur di ottenere una conferma, anche obliqua, ai propri teoremi. Lui sa di che violenza e di quali umiliazioni è fatto il carcere duro, ma sa anche di come farla franca: chiami uno dei cosiddetti magistrati coraggiosi, gli lanci una palla buona per colpire in alto e il gioco è fatto. Sa di quali odori e di quali rumori è fatta la galera, quella con le celle imbiancate dal neon e incrostate di piscio. E sa pure di quale comfort sono dotati gli alberghi o le case sul lago dove gli apparati più compiacenti dell’antimafia hanno consentito a lui e alla sua famiglia di trascorrere qualche vacanza – tutto secondo la legge, per carità – come premio per le sue confessioni più scabrose e delicate, per i colloqui investigativi più riservati, per quel suo dire e non dire che spesso lasciava in asso persino i presidenti dei tribunali o delle corti d’assise chiamati a giudicare altri boss, magari appartenenti allo stesso sanguinario clan dei corleonesi, la ciurma assetata di sangue che faceva capo a Totò Riina e Leoluca Bagarella.


Una sola cosa non ha conosciuto Brusca nella sua lunga carriera di killer all’italiana, di assassino che prima ammazza e poi si pente: quella gabbia invisibile nella quale sono stati rinchiusi, per una illeggibile maledizione del destino, alcuni degli investigatori – degli eroi, stavo per dire – che subito dopo il tritolo di Capaci e il massacro di via D’Amelio diedero la caccia a lui e agli altri stragisti. Per esempio i carabinieri del Ros – Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno – che segnati a dito dai procuratori più ardimentosi sono stati costretti, per oltre venticinque anni, a inseguire avvocati e testimoni, a macerarsi tra ordinanze e perizie giurate, a rincorrere ogni grado di giudizio per dimostrare la propria innocenza. Il generale Mori – che pure è uscito vivo oltre che assolto con formula piena dal più farlocco e più mediatico processo di tutti i tempi – è ancora impigliato in una inchiesta senza fine della procura di Firenze. E potrà anche succedere che Brusca possa essere chiamato a dire la sua e a supportare accuse e sospetti che ancora inquietano e impegnano i magistrati inquirenti.

 

Il pentito Brusca, oggi libero cittadino con identità sconosciuta, a queste cose ha fatto il callo. “Mamma comanda e picciotto va e fa”, diceva Alberto Sordi, picciotto in un film del 1962, “Il Mafioso”, diretto da Alberto Lattuada. E lui correva in soccorso dei pm. Lo faceva per mestiere, oltre che per dovere, perché aveva stretto un patto con lo stato. La legge sui collaboratori di giustizia, come si ricorderà, era stata fortissimamente voluta da Giovanni Falcone al quale aveva consentito, con il pentimento di Tommaso Buscetta e di Totuccio Contorno, di inchiodare al maxiprocesso di Palermo non solo la cupola di Cosa Nostra, a quel tempo governata da Michele Greco, detto “il Papa”, ma anche un esercito di oltre quattrocento affiliati: tutti rinchiusi dentro le gabbie dell’aula blindata dell’Ucciardone a imprecare e a maledire “quei cornuti che si erano venduti alla giustizia”.

 

Furono giorni esaltanti per Falcone e per quelli che lo avevano incoraggiato e sostenuto. Ma anche e soprattutto per la gente onesta che non sopportava più i soprusi e la violenza mafiosa; che era terrorizzata dal fiume di sangue che nessuno aveva saputo fino ad allora arginare efficacemente. Brusca però entra in scena dopo il maxiprocesso. Nel gabbione dell’Ucciardone c’erano Michele Greco e Pippo Calò, c’era persino Luciano Liggio. Ma Totò Riina, detto “u’ curtu”, e Giovanni Brusca invece non c’erano. Si trovavano chissà dove con altri bravi ragazzi a preparare la “guerra totale”. Ai giudici e allo stato. Il 23 maggio del 1992 i due incavernarono una montagna di esplosivo sotto l’autostrada di Capaci e fecero saltare in aria Falcone che tornava da Roma – lavorava già al ministero della Giustizia – ed era stato prelevato da un’auto blindata all’aeroporto di Punta Raisi. Cinquanta giorni dopo apparecchiarono l’inferno di via D’Amelio e fecero a pezzi Paolo Borsellino, l’altro giudice del pool antimafia. Credevano di aver vinto. Ma il 15 gennaio del 1993 i carabinieri del Ros, al comando di Mario Mori, scovano Riina in una villa di via Bernini, lo inseguono per poche centinaia di metri, lo ammanettano e lo murano vivo in un carcere di massima sicurezza. Fine.


Con la morte di Falcone e Borsellino, ma anche con l’arresto di Riina, lo scenario cambia eccome. Sui balconi si stendono le lenzuola bianche della cosiddetta società civile, il sentimento antimafia si irrobustisce, lo stato appare più forte e deciso, le truppe mafiose sono allo sbando, le forze di polizia non arretrano. Si fanno largo i magistrati più coraggiosi. E tra questi anche quelli che vogliono riscrivere la storia. I pentiti, dopo la cattura di Riina e il rinculo dei corleonesi, abbondano e tra quelli che chiedono di collaborare, manco a dirlo, c’è Brusca, incastrato il 20 maggio del 1996 ad Agrigento con una operazione rocambolesca coordinata dal vicequestore Renato Cortese.


Per l’assassino di San Giuseppe Jato si apre una nuova stagione. Anche se lui, nelle prime battute, mente e imbroglia le carte, le procure – data anche la sua caratura criminale – non lo mollano. Non c’è processo nel quale non è attesa la deposizione di Brusca. Da quello, ovviamente clamoroso, a Giulio Andreotti, assolto dopo sei anni, a quello altrettanto crudele nei confronti di Calogero Mannino, assolto dopo un calvario di venticinque anni; da quello contro Marcello Dell’Utri a quelli per le stragi celebrati a Caltanissetta. E Brusca è sempre lì che dice e non dice, che insinua e ammicca, che ricorda e dimentica e che è abilissimo comunque nel tenere tutti – magistrati, imputati, avvocati – appesi al filo della curiosità e della sorpresa. Ma la sua stagione d’oro, se così si può dire, è il processo della cosiddetta Trattativa, avviato con l’inchiesta “Sistemi criminali” dal pm Roberto Scarpinato e poi rilanciato dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia la cui inchiesta si fonda essenzialmente sulle rivelazioni di Massimo Ciancimino, ventriloquo del padre, Vito, che fu uomo dei corleonesi e sindaco di Palermo.  


Brusca dà il meglio di sé. Negli oltre dieci anni in cui il processo occupa le aule di giustizia, fino alla sua totale e inequivocabile evaporazione, viene chiamato più volte dall’accusa per rimediare alle patacche del giovane Massimuccio. E lui puntualmente distribuisce le sue verità. Giocando senza scrupoli col vero e il verosimile, conferisce ai magistrati – ovviamente a quelli più esposti che battono da mattina e sera giornali e televisioni per mantenere l’opinione pubblica legata al processo – conferisce, si diceva, la certezza di essere nel giusto. E gliela offre anche quando i reverendissimi inquisitori non hanno altro scopo se non quello di riscrivere la storia d’Italia; anche quando scambiano, più o meno consapevolmente, lucciole per lanterne e sbattono il muso contro la realtà. 

 

Questa insostenibile complicità Falcone non l’aveva prevista. Per il resto, dura lex sed lex.

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