Ne quater in idem. La persecuzione giudiziaria di Mario Mori

Luciano Capone

Il generale del Ros che arrestò Totò Riina deve essere colpevole, ma i pm non sanno di cosa: così dopo tre assoluzioni cambiano reato e ci provano per la quarta volta

È la quarta volta – a meno di non averne dimenticata qualcuna – che il generale Mario Mori viene indagato, e forse processato, per gli stessi fatti. Si tratta degli eventi, accaduti tra il 1992 e il 1995, gli anni delle stragi mafiose, quando il carabiniere era al vertice del Ros e in prima linea nella lotta contro Cosa nostra. A 85 anni, e dopo una ventina di anni da indagato e imputato, si tratta probabilmente del più lungo processo a un individuo.

Perché è ormai chiaro a tutti che un pezzo della magistratura inquirente, attraverso suoi vari pm avvicendatisi nel tempo, non sta perseguendo dei reati ma perseguitando una persona. Il brocardo latino ne bis in idem indica il principio giuridico secondo il quale un cittadino non può essere incriminato per la stessa cosa due volte. Nel caso di Mori siamo arrivati a quattro.

Prima è stato processato, dopo aver arrestato il “Capo dei Capi”, per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina con l’accusa di favoreggiamento nei confronti della mafia: assolto. La procura di Palermo non ha neppure presentato appello. Poi è stato processato, insieme al colonnello Mauro Obinu, per il presunto mancato arresto di Bernando Provenzano, sempre con l’accusa di favoreggiamento della mafia: assolto pure in questo caso.

Il terzo tentativo, la procura di Palermo l’ha fatto con il processo sulla cosiddetta “Trattativa stato-mafia”, in cui Mori insieme ad Antonio Subranni e Giuseppe De Donno era accusato di minaccia a un corpo politico dello stato: dopo l’attentato a Falcone, quando lo stato era in ginocchio, Mori avrebbe aperto un canale di dialogo con Vito Ciancimino per capire le intenzioni di Cosa nostra con l’obiettivo di porre fine alle stragi. Secondo l’accusa, Mori con questa sua condotta aveva veicolato la minaccia della mafia allo stato, inducendo il governo a cedere e Cosa nostra a proseguire nella sua strategia stragista.

In quell’immenso processo, l’accusa aveva costruito un articolato teorema in cui venivano inseriti ancora una volta la mancata perquisizione del covo di Riina e il mancato arresto di Provenzano, i due reati per cui Mori era stato assolto. Alla fine, dopo un decennio di processo, il generale è stato assolto una terza volta, anche nel processo sulla Trattativa, “per non aver commesso il fatto”. Sembrava finita. E invece no.

L’ultimo caso è quello della procura di Firenze che con i pm Luca Tescaroli e Luca Turco ha appena indagato Mori per strage, associazione mafiosa, terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico. Non essendo riusciti a condannarlo per favoreggiamento della mafia e per aver veicolato una minaccia della mafia, i pm fiorentini tentano di dimostrare una cosa più semplice: Mori, che per tutta la vita – prima da collaboratore di Carlo Alberto dalla Chiesa, poi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino al vertice del Ros, infine a capo del Sisde – ha combattuto prima le Brigate Rosse, poi la mafia arrestando Totò Riina e infine il terrorismo internazionale, sarebbe uno dei peggiori criminali della storia d’Italia: mafioso, stragista, terrorista e pure golpista.

L’accusa è clamorosa, ma a guardare l’invito a comparire è soprattutto ridicola. Mori, in pratica, è accusato di non aver impedito le stragi mafiose del 1993-94 perché non avrebbe fatto nulla dopo aver saputo che, secondo la fonte Paolo Bellini, Cosa nostra voleva fare un attentato alla torre di Pisa. La vicenda è surreale per due ragioni.

La prima è che le presunte rivelazioni di questo Bellini sono state già trattate abbondantemente nel processo sulla Trattativa (e in altri) e secondo le sentenze sia di primo grado sia di appello quella vicenda aveva “rilevanza limitata” o “marginale”. Perché Mori era in contatto con Ciancimino, le cui informazioni e relazioni valevano ben di più di quelle di Bellini. La seconda è che nella Trattativa Mori è stato processato per essersi attivato per fermare le stragi; mentre ora la procura di Firenze – dopo che è stato assolto – lo accusa dell’opposto: di non aver fatto nulla per fermare le stragi.

Da vent’anni, insomma, Mori viene accusato di tutto e del suo contrario per gli stessi fatti. Ci sono pm certi che Mori sia colpevole, ma non sanno bene di cosa: così sfogliano il codice penale e provano con qualche reato. Il codice è lungo, ai persecutori non resta che augurare lunga vita a Mori.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali