Magistrati prima di una cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione (foto Ansa) 

Test per i magistrati e dossier, Davigo e Salis: tra i marosi della giustizia italiana

Piero Tony

C’è chi vorrebbe la soppressione della procura nazionale antimafia, per un inspiegabile ritorno all’antico. Chi dimentica i  nostri precedenti di reucci della gogna. Chi non si rassegna a una sentenza della Cassazione. La versione di un ex magistrato

A proposito di Bauman e della sua metafora della modernità liquida – citata da anni a tutte le ore per le più svariate ragioni – ho sempre pensato, come tanti, che lui avesse immaginato un mondo  dove tutto si scioglie, quietamente, senza alcun sedimento significante, allagando come una lenta e alta marea le vite di ciascuno di noi tra contorni sfumati e senza storia. Ma quale Bauman e quale placida marea! Fortunale con mareggiata è la metafora che ho sentito proporre stamani dal mio giornalaio perché, dice lui, oggigiorno si vive sempre e solo tra marosi ribollenti che disorientano e portano al largo, troppo lontano dalla costa. Oggi – ha concluso la concione tra gli applausi del piccolo mercato circostante – si polemizza su tutto e domani sul suo contrario, ogni volta scozzando le stesse parole, senza vergogna.

 

Non siamo in pieno disaccordo. Mareggiate di tempesta, o perlomeno maretta. Metti ad esempio il caso di quella procura nazionale antimafia tanto desiderata e poi promossa da Giovanni Falcone. Vabbè che fin dall’inizio venne criticata da tanti e poi impastoiata e alla fine stravolta; vabbè che non è proprio come lui l’avrebbe voluta e organizzata, ma ci si chiede come sia possibile che oggi, dopo il recente cosiddetto scandalo dei dossier, alcuni tra i più prestigiosi dei nostri soloni si augurino non le opportune  correzioni o magari – come apparirebbe sperabile –  la sua sostituzione con uffici di procura sempre  più centralizzati e almeno distrettuali ma, addirittura, la sua soppressione sic et simpliciter.  Il che vuol dire che si augurano che ciascuna procura torni a combattere il crimine, ormai sempre, o  quasi, organizzato e sovranazionale, con le tradizionali modalità parcellizzanti marca Asperger di insabbiata memoria. 

 

Sì, tanti marosi ribollenti. Metti il caso di Ilaria Salis. Certamente non può che far soffrire la vista di una persona portata al guinzaglio  con gli arti in ceppi o quasi, chiunque essa sia e checché abbia commesso, ma occorre quella che chiamano faccia di bronzo e altro per mettere bocca e indignarsi e gridare allo scandalo e pretendere, con i nostri precedenti di reucci della gogna!, che  uno stato estero riformi la propria giustizia e ceda la sua autonomia; soprattutto pretenderlo senza ricordare, nemmeno il minimo cenno, le drammatiche riprese televisive di Enzo Tortora, pallido e ammanettato subito dopo l’arresto, mandate in onda a ripetizione nel nostro paese per settimane senza particolare scalpore. E senza ricordare che, come andiamo dicendo e scrivendo da decenni e  come Ermes Antonucci ha documentato giorni fa sul Foglio, l’Italia è tra i paesi più condannati, dalla Corte europea per i diritti dell’uomo, per violazione del diritto al giusto processo, per trattamento inumano e degradante, addirittura per tortura.

 

Passiamo ad altro. Metti il caso di Piercamillo Davigo,  simpatico solo a pochi o forse a nessuno, almeno credo,   per via di quel  rigore giustizialista alquanto spinto e irrispettoso che usava spiattellare ai quattro venti con un’ espressione del viso birbacciona a dir poco e quasi stampata, un po’ saccente un po’ proterva un po’ dispettosa e un po’ ganzina. Ebbene, è stato condannato a pena detentiva per aver ascoltato, in veste di  consigliere del Consiglio superiore della magistratura, le riservate doglianze di un collega convinto di subire abusi d’ufficio e vari torti di  relazione e per aver di seguito tentato di verificare la notizia   anche consultandosi nell’area istituzionale. Ecco, la condanna per rivelazione del segreto d’ufficio  non può non disorientare visto che per prassi ormai consolidatissima – pur restando in religioso silenzio  lo sanno i suoi colleghi, proprio tutti – ogni magistrato  bisognoso di un qualche consiglio straordinario, sia di  etica professionale sia di buongoverno ordinamentale,  si è sempre rivolto, con assoluta naturalezza,  al consigliere Csm ritenuto   proprio referente a causa di affinità culturali o di corrente. Lo si è sempre fatto in assoluta buona fede, con la diffusa convinzione di porre così in essere una sorta di interna corporis acta funzionale alle competenze di autogoverno di cui agli articoli 105  e 107 della Costituzione. Dunque di non esternare né  violare o far violare segreti d’ufficio,  ma di esercitare diritti e adempiere doveri garantiti nell’interesse dell’Ordine giudiziario. Nonostante codesta buona fede e codesta prassi, i magistrati non hanno giudicato mancante, comunque e in subordine, il cosiddetto elemento soggettivo del reato – previsto dalla formula assolutoria perché il fatto non costituisce reato – e dopo una piroetta  con processo a certe intenzioni  l’antipatico Davigo è stato condannato. Morale: conviene sempre accattivarsi simpatia e sorridere. Certamente non pare poi un caso che proprio in questi giorni, ad esempio, in relazione ai cosiddetti dossier, due procuratori siano stati sentiti, nel pieno delle indagini e a loro richiesta, nel vortice politico-mediatico  di due organi parlamentari, senza che in questo si siano ravvisate ipotesi delittuose pari a quelle contestate a Davigo.

  

Oppure metti il caso, visto che siamo  in argomento di mare ribollente e  tempestoso, del recente scandalo sulla criticità della gestione delle banche dati a disposizione della procura nazionale antimafia. Decine di migliaia di accessi a Sidda/Sidna, Serpico, Sdi, e chi più ne ha più ne metta, che, si precisa quale utile chiave di lettura, sono solo misera parte domestica rispetto alle banche dati delle intelligence mondiali dell’era di Wikileaks e Assange. Vanno fatte anche due premesse: la prima  che non  possiamo dubitare seriamente, sotto impero internet, sul fatto che si sia ormai estinto da anni – proprio come il povero dodo di Mauritius – quel diritto che i nostri genitori avevano denominato privacy; la seconda  che, stante la sua scomparsa,  è diventato essenziale preoccuparci  con massima attenzione e  massima severità degli accessi e degli utilizzi non giustificati e dunque criminali; ferme restando naturalmente scriminanti e attenuanti Assange, legate nei paradigmi di giudizio  a ormai pervasivi diritti fondamentali e princìpi  di proporzionalità e ragionevolezza del costituzionalismo globale. Va anche considerato che le  ragioni degli indebiti accessi secondo specifiche casistiche possono  essere molteplici, sia venali in senso stretto, sia a titolo di favore in senso lato. E che negli uffici della Direzione nazionale antimafia tutte le prassi si svolgevano sotto gli occhi di tutti, tanto che il nuovo procuratore Melillo non ci mise molto per capire che qualcosa… non andava bene. Né va  sottovalutata l’importanza, di primo acchito non percepibile, che il potervi accedere e così avere la possibilità di anatomizzare una persona è esercizio di un potere immensamente gratificante, pari a quello di chi dall’esterno  ha possibilità di chiedere e  ottenere codesti favori. Memorabile, a tal proposito, il periodo di tempo intercorso tra quando con legge n. 121 1981 venne istituito lo Sdi (Sistema di indagine informatico interforze) e quando  con legge  n.547/1993 vennero finalmente adeguatamente penalizzati gli accessi abusivi ai sistemi informatici  o telematici (art.615 ter cp); memorabile perché era divenuto per molti addetti quasi un gioco di società alle spalle di conoscenti e aggregati, oltre che  un’intuibile esibizione di strapotere. 
   

Tornando al recente scandalo della procura nazionale antimafia, va detto che le cagioni degli accessi abusivi in genere non sono molte, non necessariamente finalizzate alla formazione di dossier come invece pare molti diano per scontato, ma tutte gravemente fuori legge. Fuori legge penale, per prima cosa, tutti quelli compiuti per sviamento ossia per finalità estranee a quelle proprie della funzione esercitata, ancor più se per denaro o altra utilità o per arrecare ad altri un danno, sia o non sia esso ingiusto. Ma, per via della insita compromissione di interessi assai sensibili di chi proprio non doveva essere “anatomizzato”, fuori legge  quanto al diritto civile  anche se compiuti solo – è  il  secondo ordine di cause  –  in un contesto di sciatteria e confusione organizzative tali da consentire il malvezzo di deleghe di indagine alla polizia giudiziaria gergalmente “aperte” (ossia senza la precisazione di quali siano esattamente le attività delegate e di quale sia il termine assegnato per il loro espletamento, sono la stragrande maggioranza), in ordine a segnalazioni generiche da sviscerare tipo le operazioni sospette (Sos come nella fattispecie… nomen omen ) e addirittura – accade – non annotate in un registro di passaggio, insomma consegnate ai delegati  a pacchi   come comuni scartoffie da macero. Non pare invece preoccupante il numero di accessi,  in quanto la ricerca dei dati – sgranati e poi aggregati come ciliegie, scherzano gli addetti – non è rigidamente numerica ma tendenzialmente espansiva secondo curiosità, pregiudizi e saperi professionali. 

 

Frangenti tempestosi e confusione che disorientano ma sui quali non è giusto non riflettere. 
Ad esempio le guerre, è giusto che ormai il diritto internazionale moderno stia  tutto nell’aforisma...  modernissimo... dell’occhio per occhio dente per dente?

 

Ad esempio la giustizia. Abbiamo apprezzato molto la pregevole sentenza con cui la Cassazione ha messo la parola fine al capolavoro di Ingroia e compagni chiamato Trattativa, trascinato per i vari gradi di giudizio con un calvario di  circa dodici anni per gli sfortunati imputati. Mi era rimasta però l’ombra di un’uggia – forse mi è sfuggito qualcosa, non è possibile che si tratti solo di faccia tosta, era il mio rovello –  per la persistente sicumera con cui Ingroia e compagni attraverso i media avevano continuato a gridare all’errore giudiziario. Tutto risolto, l’uggia è stata spazzata via – come fa la bora con la nebbia – proprio grazie alla lettura del recente libercolo di Nino Di Matteo e Saverio Lodato  intitolato polemicamente “Il colpo di spugna”. E grazie  al pensiero che se tanto mi dà tanto trattavasi davvero di aria fritta.

 

Ad esempio l’intelligenza artificiale, che, per via della capacità di formare falsi di immagini e voci e perfino dialoghi, non potrà non creare problemi  agli inquirenti in materia di arresto differito, di riconoscimento facciale, vocale e dell’andatura e così via. Ma non se ne parla per tempo, lo si farà dopo con calma!

 

Ad esempio è interessante il chiasso attorno ai test psicoattitudinali che pare il governo voglia introdurre per l’ingresso in magistratura. Come al solito se ne parla solo secondo schieramenti e mareggiate. Personalmente credo che andrebbero fatti ponti d’oro con canti di alleluia se potessero servire, sia pure minimamente, a garantire equilibrio, misura, terzietà e autorevolezza degli aspiranti magistrati. Purtroppo non è così. 
 

Senza scomodare il manzoniano guazzabuglio del cuore umano – per via delle sue emozioni “convulsive” forse i test  avrebbero relegato Alessandro in soffitta – è fatto ormai notorio, tra gli interessati, che tutto  il sapere sul mondo della neuroscienza e della psichiatria,  oggetto di continui studi di  approfondimento (la dice lunga il fatto che il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disordes dell’anno 1952, noto come Dsm-1 si è sviluppato fino al Dsm-5-Tr  dei nostri giorni),  è almeno per ora scienza non esatta ma di approssimazione, in quanto tale legato all’enunciabile  di un momento provvisorio. I test di cui si discute, siano obiettivi o  proiettivi, sempre  e comunque sono abbastanza affidabili, nel senso di utili indicatori ma indicatori e basta, solo se amministrati e interpretati al massimo di conoscenza aggiornata  e correttezza professionali. Ne è prova il fatto che il loro esito, non sufficientemente argomentabile per codeste ragioni, dopo i  primi entusiasmi è apparso pericolosamente assertivo e dunque sottratto a un reale controllo difensivo; motivo per cui,  da oracolo che pareva  fino alla fine degli anni 90 del secolo scorso,  ormai da anni  è causa di  discussione e critiche.  Memorabili gli errori giudiziari un tempo commessi e ammessi in campo minorile per via dei vari test, allora tra i più  in voga Duss, Blacky pictures di Blum, Rorschach, Tat, tutti  giudicati non sufficientemente sperimentati e inconferenti fin dalla carta di Noto 2011.
 

Ma c’è di più. Quanto alle specifiche intenzioni governative è difficile capire come potrebbero servire ai fini dell’entrata in magistratura. Anzi sembra evidente che servirebbero solo ad allungare e complicare i tempi dei concorsi (basta pensare a un test negativo seguito da ricorso a Tar e Consiglio di Stato, moltiplicandolo per il numero dei negativi ). Infatti i test psicoattitudinali, servendo – ferme restando queste riserve –  a valutare l’attitudine a un certo mestiere, ovviamente rilevano in modo diverso – absit iniuria verbis – secondo che l’attitudine sia diretta alla manualità dell’idraulico o alla chiarezza contabile di un ragioniere o a prontezza decisionale e curiosità investigativa di agente di polizia o carabiniere  piuttosto che alla  capacità culturale  dell’aspirante magistrato di restare terzo e imparziale nel complesso gioco tra interpretazione delle norme, verificazionismo, falsificazionismo e contrapposizione dei contendenti.  Probatio diabolica era l’espressione latina usata a proposito di un accertamento probatorio impossibile. A meno che non si pensi solo di testare – sarebbe inaudito, ma la figura del liberale Nordio porterebbe ad escluderlo –  l’inclinazione a obbedienza e mainstream.  
 

Abbandonata l’idea dei test psicoattitudinali, sarebbe invece possibile e molto utile intervenire sul campo a gioco iniziato, da quando già la qualifica di magistrato ordinario in tirocinio è stata assunta,  organizzando e affinando controlli, occasioni diagnostiche e sanzioni disciplinari rapide e concrete, purché esclusivamente nei casi di clamorosa evidenza professionale di patologia psichiatrica. Succede anche nelle migliori famiglie. Non sarebbe poca cosa ma un importante passo avanti, visto che tali casi non sono stati pochi dal dopoguerra in poi e  che finora  mai  il sistema ha potuto o voluto fare qualcosa di diverso dall’attendere pazientemente la soluzione nel pensionamento per vecchiaia, con buona pace nel frattempo per gli sfortunati malcapitati richiedenti giustizia. In tal modo, ossia alla luce della clamorosa  evidenza, finalmente  si potrà almeno evitare di vedere,  senza mortificare con i predetti test autonomia e dignità ed entusiasmo dei giovani aspiranti,   il pm  che a ferragosto, arrivato in procura indossando un loden, vede l’indagato in attesa fuori della porta che  ridendo gli chiede se ha freddo  e lui per reazione lo prende a pugni e calci. O quello, sorpreso in flagranza solo dopo lunghe indagini, che di primissimo mattino molestava telefonicamente da mesi le mogli dei colleghi usando il criptocentralino della procura.   Oppure il giudice che, dalla finestra della camera di consiglio, spara a pallini contro i gatti del cortile mentre in aula gli avvocati lo attendono preoccupati. O quello  che, dopo aver tentato inutilmente di riconciliare i coniugi, al commiato fa il baciamano alla moglie accusata dal coniuge di avere problemi mentali e subito dopo schiaffeggia il marito renitente.  
Speriamo che il mare si calmi.