Francesca Nanni (foto Ansa)

Il ritratto

La saldezza d'animo di un giudice che ha coltivato il dubbio, elogio di Francesca Nanni

Andrea Venanzoni

Andare oltre agli elementi processuali per percorrere la stretta e oscura via di revisione processuale. Così la procuratrice generali di Cagliari ha contribuito non solo a liberare Zuncheddu ma anche a alleviare il senso di colpa dei suoi accusatori 

Francesca Nanni era procuratrice generale a Cagliari, quando il dubbio iniziò, larvato, a prendere forma: e se fosse innocente, Beniamino Zuncheddu? Stretta è la via della revisione processuale. Stretta e oscura. Nutrita da aspetti tecnico-processuali, certo, ma pure da inestricabili, aggrovigliate sensazioni irradianti dalla vita, dagli sguardi, dalle emozioni delle persone coinvolte in quel mistero che risponde al nome del processo. Atto assoluto, situato oltre qualunque canone di accettabilità umana, in apparenza persino privo di uno scopo che non sia il processo stesso e devoluto alla concatenazione di mondano e di sacro, perché come insegnava Salvatore Satta, “quando la vita sarà finita, quando l’azione sarà conclusa, verrà uno, non per punire, non per premiare, ma per giudicare: qui venturus est judicare vivos et mortuos”. 

Nella revisione alberga l’aspetto lunare, apocalittico e rovesciato del consolidamento della verità processuale, messa in questione e frantumata come superficie lucida di uno specchio dal refolo di un dubbio. Quella che sembrava certezza, così granitica nella sua essenza di cosa giudicata e tale da poter travolgere e murare un’esistenza nel perimetro conchiuso del carcere, viene essa stessa travolta dall’oceano di quel dubbio. Slavina di incartamenti, di richieste, di accertamenti che tracimeranno in un nuovo processo, situato alla latitudine esterna del giudicato e celebrato nel nome della speranza. Gioco crudele, la speranza, perché come insegnava il vecchio Cioran essa tende a irretirci nelle maglie di una schiavitù e riaccende l’essere umano sopito nel profondo del prigioniero. Fa intravedere all’uomo murato, divenuto interstizio di carne della detenzione, quel primo bargiglio di luce, promessa di una nuova genesi.


Francesca Nanni, dicevamo, era procuratrice generale a Cagliari, quando quel dubbio iniziò, larvato, a prendere forma. E per animare un dubbio, per renderlo qualcosa di sostanziale nella vitalità della revisione, non servivano soltanto i pur indispensabili elementi processuali, ma anche la predisposizione d’animo di volerlo coltivare quel dubbio. Sentirsi non arido ingranaggio burocratico che, per citare sempre Salvatore Satta, “giudica e manda al carnefice”, bensì rimanere saldi nella umanità difficoltosa di una tra le più intense e crudeli tra le funzioni: la sacralità del giudizio, e il suo peso, e il vincere qualunque spirito sedimentato nella potenziale parzialità della prospettiva di “parte”. Francesca Nanni ha dimostrato quanta ragione avesse Mario Nigro quando in una delle sue ultime prolusioni avvertiva come il processo non dovesse essere vissuto come guerra d’annientamento. Ha anche dimostrato la saldezza d’animo di chi sa che sta aprendo un varco, uno spiraglio dentro cui potrà filtrare una luce che in caso di esito negativo abbaglierà e accecherà per sempre chi sarà stato evocato a provare nuova speranza. Ha accettato quella disposizione descritta con lucida tristezza dal Grande Inquisitore tra le pagine de I fratelli Karamazov, “e così inquietudine, sgomento e infelicità sono l’attuale sorte degli uomini dopo che tu hai sofferto tanto per la loro libertà!”.Rischio di arrecare dolore a chi si vuol salvare proprio col tentativo di salvazione. Ma correndo quel rischio, percorrendo quella stretta via, Francesca Nanni ha dimostrato di conoscere Zuncheddu sin nel profondo, nonostante non lo abbia mai incontrato in carne e ossa.


“Lo conosco dalle carte” dice la procuratrice, oggi a Milano. E si è commossa, sapendo l’esito della revisione. In questa apparente, praticissima, contraddizione di una conoscenza puramente cartolare e, del pari, in una commozione sincera e reale, sta il punto di conferma del valore umano nelle maglie del rito processuale. Tutte le nuove forme di accertamento disposte, l’apertura delle maglie per far filtrare quella luce, il colloquio con Luigi Pinna, scampato alla strage e originario, principale accusatore di Zuncheddu, a cui dice “vede, Pinna. Io la capisco, vedo il suo tormento”. Nella condizione del prigioniero, prigioniero della galera o del dubbio, si stende il sudario nero che Mani illustrava con parole funeree, ‘possa tu liberarmi da questo fondo Nulla, dal Nulla terribile che è tutto tortura, soltanto tortura’. Francesca Nanni ha contribuito a liberare non solo Beniamino Zuncheddu ma anche Luigi Pinna. Da un insondabile peso che gli macinava cuore e anima.