La Trattativa perde ancora pezzi

Luciano Capone

L'accusa chiede l'assoluzione di Dell'Utri e un nuovo appello per Mori-Subranni-De Donno. Dopo la sentenza Mannino, escono di scena i "politici". E qual è la sponda istituzionale del Ros nel patto con la Mafia? Dopo decenni di processi restano tante assoluzioni e un teorema che non regge

L’ultima tappa del cosiddetto processo sulla Trattativa stato-mafia forse non è quella conclusiva. La sentenza della Cassazione è attesa per il 27 aprile, ma la Procura generale ha chiesto, dopo le assoluzioni della Corte di assise palermitana, un nuovo processo d’appello per gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Mentre ha chiesto la conferma dell’assoluzione per l’ex senatore Marcello Dell’Utri, che era accusato dalla procura di Palermo di essere stato nel 1994 il vettore per conto di Cosa nostra delle minacce nei confronti del suo amico e allora premier Silvio Berlusconi.

 

Escono così di scena, dopo l’assoluzione in Cassazione di Calogero Mannino, entrambi i politici accusati di avere – in tempi diversi – sollecitato e partecipato alla trattativa con la mafia. È sospeso il ruolo dei Carabinieri del Ros, che rischiano l’ennesimo processo sugli stessi fatti oggetto di numerosi altri processi in cui finora ci sono state solo assoluzioni: l’assoluzione definitiva di Mori e De Caprio per la mancata perquisizione del covo di Riina; l’assoluzione definitiva di Mori e Obinu per il favoreggiamento a Bernardo Provenzano; l’assoluzione definitiva di Mannino per la Trattativa; l’assoluzione in appello di Mori, Subranni e De Donno sempre per la Trattativa. Dopo una lunga sequenza di assoluzioni definitive in altri processi e in questo stesso processo, resta da capire come sarebbe possibile un’eventuale condanna “oltre ogni ragionevole dubbio”.

 

In ogni caso, la richiesta della Procura generale di Cassazione da sola dà un colpo al teorema giudiziario e mediatico che ha imperversato per oltre dieci anni. La richiesta di assoluzione di Dell’Utri, infatti, esclude da tutta la vicenda del presunto negoziato con la mafia stragista il governo Berlusconi. Di conseguenza, dovendo per forza di cose ipotizzare una sponda politico-istituzionale alla presunta strategia trattativista degli ufficiali del Ros, i governi coinvolti in questo “patto scellerato” tra istituzioni, forze dell’ordine e boss sarebbero quelli guidati da Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. Il centrosinistra, quindi, anziché il centrodestra. E, soprattutto, i personaggi politici che da questo castello accusatorio uscirebbero più compromessi (quantomeno per aver ceduto alle richieste mafiose) sarebbero il giurista Giovanni Conso, ministro della Giustizia in entrambi i governi, e il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, in quanto fautori di una strategia di “ammorbidimento” nei confronti della Mafia.

 

Insomma, come hanno già evidenziato Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo nel libro “La Mafia non ha vinto” (Laterza) la ricostruzione da parte dell’accusa di questa vicenda storica chiama in causa il centrosinistra e in particolare alcuni dei più prestigiosi esponenti delle istituzioni ritenuti, almeno fino a poco tempo fa, al di sopra di ogni sospetto per come hanno guidato il paese in una fase storica drammatica: Giuliano Amato, Giovanni Conso, Nicola Mancino e due presidenti della Repubblica come Ciampi e Scalfaro (per non parlare poi del coinvolgimento anche di un terzo, Giorgio Napolitano, nella vicenda delle intercettazioni). È un caso in cui davvero la ricostruzione giudiziaria fa a cazzotti con la verità storica (almeno quella scritta finora dagli storici) e il senso comune. E l’intreccio perverso tra processo penale, storiografia e narrazione mediatica non può che produrre il disorientamento dell’opinione pubblica e alimentare la sfiducia nelle istituzioni (politica e magistratura).

 

Il processo sulla Trattativa è stato l’apoteosi di queste disfunzioni. In un articolo a commento della sentenza assolutoria di appello pubblicato sulla rivista scientifica “Diritto penale contemporaneo”, Giuseppe Amarelli, ordinario di Diritto penale all’Università di Napoli, ha scritto che in un sistema penale costituzionalmente incentrato sulla presunzione di non colpevolezza questioni così complesse e delicate non dovrebbero essere trattate “nel circuito mediatico accordando un ruolo preminente all’accusa”. E a maggior ragione dovrebbero astenersi dal farlo i pubblici ministeri che, a giudizio in corso, pubblicano libri, articoli o interviste in cui di fatto esprimono “giudizi sulla colpevolezza degli imputati”: il riferimento esplicito di Amarelli è ai libri dai titoli allusivi (“Io so”) e suggestivi (“Il patto sporco”) dei pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo. “Molto probabilmente – ha scritto il giurista – dopo la  riforma [Cartabia] che, ratificando e rendendo esecutiva una direttiva Ue del 2016, ha rafforzato la presunzione di innocenza, situazioni simili potrebbero essere destinate a non ripetersi più”.

 

Inoltre Amarelli sostiene che alla luce della riforma Cartabia non dovrebbero più verificarsi “indagini esplorative in cui le condotte ascritte agli indagati-imputati vengono ‘trovate’ dopo investigazioni ad amplissimo raggio e assumono connotati sbiaditi e slabbrati, talvolta, anche inverosimili”. Insomma, non si sa come questo processo andrà a finire, ma per il futuro processi del genere non dovrebbero più essere celebrati, o dovrebbero essere impostati in maniera molto diversa. Almeno si spera.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali