Da processi infiniti a processi morti: i guai della riforma Cartabia

Ermes Antonucci

La riforma dell’improcedibilità voluta dall'ex Guardasigilli, senza risorse, rischia di far saltare migliaia di procedimenti penali. Voci dalle Corti

"La riforma Cartabia sull’improcedibilità costituisce una toppa peggiore del buco, e ce ne accorgeremo tra poco", dice al Foglio un autorevole magistrato di Corte d’appello, riferendosi al meccanismo della tagliola introdotto nel 2021 per evitare il processo eterno “alla Bonafede”: trascorsi tre anni in appello e un anno e sei mesi in Cassazione, i procedimenti penali – salvo quelli per reati gravi come mafia e terrorismo – si interrompono (i termini diventeranno di due anni in appello e un anno in Cassazione dal 2025). Nella logica dell’ex Guardasigilli Marta Cartabia, l’intervento avrebbe dovuto essere accompagnato da una serie di misure volte a velocizzare i processi ed evitare la tagliola. A distanza di un anno e mezzo, però, di queste misure non c’è  traccia. 

 

Insomma, dopo il guaio sui reati procedibili solo a querela e sui mancati arresti obbligatori in flagranza, che ha costretto il ministro Nordio a intervenire d’urgenza, la riforma Cartabia torna a far parlare di sé. Il tema è stato trattato in maniera solo marginale giovedì all’inaugurazione dell’anno giudiziario alla corte di Cassazione. Il primo presidente della Suprema corte, Pietro Curzio, nella sua relazione ha evidenziato che, anche se non si registrano ancora applicazioni delle norme sull’improcedibilità, “alcune corti di appello valutano con preoccupazione le ricadute sulla complessiva organizzazione dei ruoli”: poiché la disciplina sull’improcedibilità si applica ai processi per reati successivi al primo gennaio 2020, il rischio concreto è che i processi preesistenti vengano lasciati morire, e che per quelli successivi le risorse in mano alla magistratura non siano sufficienti per rispettare i tempi previsti prima che scatti la tagliola.

 

Così, se da un lato Bonafede ha cancellato la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, Cartabia rischia di essere ricordata per aver introdotto direttamente la cancellazione dei processi. “La riforma Cartabia – prosegue il magistrato d’appello – non è stata motivata da ragioni legate ai massimi sistemi giuridici. Non si poteva toccare la norma Bonafede, perché il M5s faceva parte del governo, e allora si è introdotta l’improcedibilità. Si è trattato di un pastrocchio motivato esclusivamente dal riuscire a mettere mano ai soldi dell’Unione europea”.

 

“Eppure il vero obiettivo non dovrebbe essere quello di diminuire in maniera astratta il numero dei processi, ma di migliorare l’efficienza del servizio offerto ai cittadini. C’è forse qualcuno oggi in grado di dire che quello offerto dall’amministrazione della giustizia è un servizio che funziona?”. “Cosa faremo? Andremo in Europa e diremo: ‘Questo è il numero di processi che abbiamo definito, ma non chiedeteci come’?”. 

 

Più caute ma nella stessa direzione le riflessioni di Francesco Mollace, sostituto alla procura generale di Roma, che al Foglio dice: “Nel complesso, lo spirito della riforma Cartabia, cioè l’accelerazione dei processi, è da salutare con favore. Del resto, questa accelerazione è dovuta anche alla spinta dell’Ue e alla necessità di accedere ai fondi del Pnrr”. “Rispetto ai tempi standard europei di trattazione dei processi, infatti, l’Italia è indietro – aggiunge Mollace – e l’elevato numero di decisioni per prescrizione del reato fa capire che c’è un meccanismo che non funziona alla perfezione”.

 

“Diverso è il problema dell’impatto della riforma dell’improcedibilità. Credo che le strutture giudiziarie, e mi riferisco soprattutto agli uffici giudicanti, non siano pronte a recepire una riforma con effetti così radicali. Ci sono problemi di organico, di distribuzione delle risorse, di supporto degli uffici più esposti”.

 

In certi casi gli effetti dell’improcedibilità processuale rischiano di risultare paradossali. Nel 2021 il Centro studi Livatino aveva citato con grande efficacia l’esempio dell’omicidio non aggravato. Il termine di prescrizione sarebbe di 24 anni (corrispondente al massimo della pena prevista dalla legge). Se giudicato in primo grado a distanza di tre anni dal momento in cui è stato commesso, il reato potrebbe diventare improcedibile, nella peggiore delle ipotesi, allo scadere dei successivi sei anni, per un totale, quindi, di soli nove anni.

 

Non è una sorpresa, così, se qualcuno ora chiede il ripristino della prescrizione sostanziale in tutti i gradi di giudizio. A fine dicembre il governo ha dato parere favorevole a un ordine del giorno presentato dal deputato Enrico Costa (Azione) che va in questa direzione, superando sia la riforma Bonafede sia quella Cartabia.

Di più su questi argomenti: