come muoversi

Salvate l'amministratore pubblico dal reato di abuso d'ufficio

Cristiano Cupelli

Necessario un intervento legislativo. Perché troppo spesso i funzionari pubblici non prendono decisioni che pur ritengono utili per timore. Ma l'abolizione non è una scelta conveniente

Sono le statistiche a supportare l’esigenza di tornare a occuparsi dell’abuso d’ufficio. Il dato che, pur a fronte di un numero elevatissimo di iscrizioni, solo il 3 per cento di queste si trasforma in sentenze di condanna, rende ineludibile un nuovo e ulteriore intervento legislativo diretto a circoscrivere il rischio di un coinvolgimento generalizzato, in sede penale, dei pubblici amministratori.

  

Non vi sono parole più nitide, in questo senso, di quelle pronunciate un anno fa dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 8 del 2022; qui, cogliendo nelle slabbrature interpretative dell’art. 323 c.p. operate in sede giurisprudenziale “una delle principali cause della sempre maggiore diffusione del fenomeno che si è soliti designare come burocrazia difensiva”, nella quale “i pubblici funzionari si astengono dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta ‘paura della firma’)”, si è infatti ben messo in luce che “il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un ‘effetto di raffreddamento’, che induce il funzionario a imboccare la via per sé più rassicurante”, con inevitabili “riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati”.

  

Quali i contorni dell’auspicato intervento? Da più parti e autorevolmente si invoca l’abrogazione secca dell’art. 323 c.p., così da elidere alla radice qualunque tentazione di reinterpretazioni del potere giudiziario, che in questi anni sembra avere sempre trovato il modo di vanificare gli sforzi del legislatore riallargando i margini applicativi della fattispecie (è ciò che è avvenuto soprattutto con la riforma del 1997, che per la prima volta ha definito le modalità della condotta abusiva).

  

Senonché, la scelta più radicale per un verso rischierebbe di provocare una paradossale riespansione di altre fattispecie punite più gravemente (quali il peculato per distrazione e la turbata libertà degli incanti o del procedimento) e, per altro verso, si esporrebbe a vizi di costituzionalità (il cui sindacato, pur se potenzialmente foriero di effetti in malam partem, è ormai ritenuto ammissibile), tanto per contrasto con l’art. 117 Cost. (violazione degli obblighi internazionali che impongono una penalizzazione di condotte abusive: art. 19 della Convenzione di Merida, ratificata dal nostro paese con la legge n. 116 del 2009), quanto perché, lasciando “scoperte” ipotesi di strumentalizzazione a danno della pubblica amministrazione, creerebbe vere e proprie “zone franche” dell’ordinamento.

  

Resta la strada di una riformulazione dell’art. 323 c.p., che muova dalla presa d’atto di come, nelle riforme del passato, si sia scelto, punendo le sole violazioni formali di norme di legge, di limitare il sindacato del giudice all’attività vincolata della pubblica amministrazione, appiattendo l’area di responsabilità penale su illegittimità di carattere amministrativo ed esponendo i pubblici funzionari a facili contestazioni dei pubblici ministeri. Occorrerebbe un cambio di paradigma: recuperare l’essenza del concetto di “abuso” (ormai evocato solo nella rubrica dell’art. 323 c.p.), sforzandosi di tipizzare ipotesi di reale sfruttamento privato dell’ufficio, nelle quali cioè il pubblico amministratore abbia realizzato una distorsione funzionale dell’azione amministrativa, a fini privati o di danno, tracciando il perimetro della condotta rilevante all’interno di un indebito utilizzo a fini privati dell’ufficio caratterizzato dalla contrapposizione tra interesse privato e pubblico che mini l’imparzialità.

 

Cristiano Cupelli
professore ordinario di Diritto penale Università di Roma Tor Vergata

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