Foto di Alessandro Di Marco, via Ansa 

un commento

Teoremi accusatori, prevenzione, pene: l'antimafia da ripensare

Giovanni Fiandaca

“L’inganno” di Alessandro Barbano, un saggio lucido e coraggioso su “usi e soprusi dei professionisti del bene” che tenta di esportare l'analisi critica fuori dai recinti accademici per renderla viva nello spazio pubblico

Chi osa criticare, anche con buone ragioni, l’antimafia più repressiva e integralista suscita subito il sospetto di essere un filomafioso, o un garantista peloso che nasconde intenzioni ignobili e interessi oscuri. Ne ho fatto esperienza nel sottoporre a critiche sin dall’origine, anche su questo giornale, il processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia (cfr. il Foglio, 1 giugno 2013), attirandomi l’accusa di essere un “negazionista” o “giustificazionista” di turpi patti politico-mafiosi. Più di recente, ha vissuto una esperienza analoga ad esempio il giornalista Alessandro Barbano (noto per il suo impegno "garantista"), incorrendo nel rimprovero di avere tradito lo spirito di Pio La Torre per avere espresso, sul palco della Leopolda 2022, opinioni negative su alcune parti della legislazione antimafia vigente. Lo racconta egli stesso in un saggio freschissimo di stampa, dall’eloquente titolo L’inganno - Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene (Marsilio, 2022). È di questo saggio lucido e coraggioso che intendo qui parlare, apprezzandone innanzitutto l’obiettivo di denunciare effetti dannosi o distorsivi delle attuali strategie di contrasto delle mafie che sfuggono, per lo più, all’ampia platea dei “non addetti ai lavori”. Tanto più che le critiche prospettate, lungi dall’essere puramente demolitrici, mirano a sollecitare un ripensamento complessivo dell’azione antimafia per migliorarne i modelli operativi e i risultati pratici (anche se non mancano qua e là nel libro rilievi influenzati, a mio giudizio, da un eccesso di garantismo ideologico, o formulati con una certa enfasi drammatizzatrice).

 

Non privo di infarinatura tecnico-giuridica, e accettando il rischio di qualche imprecisione (che può peraltro essergli perdonata), Barbano affronta con stile vivace e pugnace più punti nevralgici, ponendo nel contempo sotto osservazione meccanismi normativi e approcci giudiziari. Sicché l’analisi prende in considerazione sia i risalenti e persistenti deficit di tassatività e precisione delle norme scritte, che determinano come effetto una notevole dilatazione della discrezionalità interpretativo-applicativa dei giudici, sia prassi giudiziali censurabili in quanto a vario titolo contrastanti con esigenze di garanzia o col principio della divisione dei poteri. Si tratta, beninteso, di questioni problematiche tutt’altro che nuove: ma nuovo o rinnovato è lo sforzo di esportare l’analisi critica fuori dai recinti accademici, dove è consolidata ormai da non pochi decenni, per farne appunto oggetto di una discussione più ampia nello spazio pubblico. 

 

Non è possibile accennare a tutti i profili problematici considerati e alle svariate esemplificazioni casistiche che conferiscono concretezza al saggio, rendendone più intrigante la lettura. Tra questi profili, un posto centrale spetta senz’altro alla questione di fondo relativa al ruolo dell’antimafia a un tempo politica, giudiziaria e giornalistica nel complessivo orizzonte democratico (si veda in particolare il capitolo 9). Si allude cioè alle tendenze ricorrenti a porre la democrazia sotto tutela giudiziaria, a utilizzare l’indagine e il processo penale come strumenti di condizionamento o rinnovamento politico e di moralizzazione collettiva (trasformando procure e tribunali in autorità deputate a emettere censure etico-politiche di fatti anche privi di rilevanza penale), a riscrivere la storia d’Italia o a interpretare le dinamiche politiche in prevalente chiave criminale (andando alla caccia ossessiva del “grande vecchio” di turno da additare a regista o capo di complotti politico-delittuosi), a scrivere articoli giornalistici e persino libri (ad opera anche di magistrati protagonisti delle indagini) che divulgano come verità giudiziariamente accertate ipotesi accusatorie frutto di teoremismi, immettendo così nella comunicazione pubblica virus destinati a distorcere l’interpretazione degli accadimenti, ecc. Che questi sin qui sintetizzati siano effetti più che discutibili di un certo modo diffuso di fare antimafia, è indubbio e Barbano ha fatto bene a stigmatizzarli con vigore e ampi riscontri esemplificativi.

 

Più complesso e articolato, anche sotto un profilo tecnico, è invece il discorso rispetto al radicale e pressoché totalizzante attacco che l’autore muove al sistema della prevenzione antimafia, rivisitato in più capitoli del saggio. Le misure di prevenzione – vale forse la pena ricordarlo – sono state in Italia introdotte, nel secondo Ottocento, come “stampelle” di una attività repressiva che non riusciva a contrastare la endemica criminalità meridionale con gli strumenti della normale giurisdizione penale (il loro meccanismo applicativo, in quanto incentrato su elementi indiziari di cosiddetta pericolosità sociale, prescinde dalla prova della commissione di reati veri e propri): non a caso, la dottrina giuridica di orientamento liberale le ha sempre guardate con prevalente avversione e diffidenza, bollando in particolare le tradizionali misure personali (come la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza) come “pene del sospetto” o “pene senza delitto”.

 

Ma non bisogna trascurare che, nel corso del tempo, il ventaglio delle misure preventive è andato arricchendosi e ammodernandosi, per cui i vecchi arnesi del passato non ne rappresentano ormai la parte più significativa e potrebbero anche essere eliminati. Ben maggiore rilievo, in termini di attualità e almeno potenziale efficacia, assumono invece le misure patrimoniali del sequestro e della confisca dei patrimoni di origine illecita o delle aziende in mano mafiosa, introdotte nel 1982 e successivamente più volte riformate (in un primo tempo, rendendole applicabili anche senza le misure personali, e infine – in particolare durante l’ubriacatura populista del governo cosiddetto gialloverde – estendendole indebitamente a forme di criminalità diverse da quella mafiosa); nonché, a mio avviso, soprattutto le ancora più innovative misure non ablative, ma – per dir così – “terapeutiche” dell’amministrazione giudiziaria e del controllo giudiziario (quest’ultimo previsto più di recente anche in sede amministrativo-prefettizia), volte a bonificare quelle aziende che, pur infiltrate da organizzazioni criminali, appaiono comunque suscettibili di essere recuperate a un futuro funzionamento esente da influenze o pressioni mafiose. È proprio questa orientazione recuperatoria che rende questi ultimi strumenti, in atto in corso di sperimentazione applicativa, assai promettenti.    

 

Se è certo che le suddette misure con finalità di bonifica non hanno un carattere punitivo, non è però neppure sicuro che possa continuare oggi a essere considerata come una “pena mascherata” la stessa confisca dei patrimoni illeciti. Piuttosto, è plausibile ravvisarne la attuale finalità in una ottica che ha poco a che fare con una sostanziale punitività occultata, e che riflette piuttosto una esigenza di controllo pubblico sull’origine e formazione delle ricchezze patrimoniali: in questo senso, la confisca diventa una misura compensatorio-ripristinatoria volta a riportare la situazione patrimoniale allo stato antecedente alla commissione dell’illecito, in quanto la ragione che la giustifica finisce appunto col basarsi sul principio che  la condotta illecita non può costituire titolo legittimo di arricchimento (cfr. sent. costituzionale n. 24/2019). Ciò non equivale, beninteso, a disconoscere che una confisca pur così concepita necessiti di essere posta su basi normative da riformare, essendo ancora quelle vigenti sotto diversi aspetti difettose sul piano delle garanzie individuali. Come pure sono senz’altro da criticare certe prassi giudiziarie troppo spericolate, disinvolte o comunque eccessivamente discrezionali nel decidere la confiscabilità di ricchezze o aziende lambite da sospetti assai labili di origine o compromissione mafiosa (specie nei casi in cui il procedimento di prevenzione prosegua, come l’ordinamento vigente consente, nei confronti di persone assolte in un processo penale già concluso). E altresì Barbano ha ragione nell’annoverare, tra i guasti maggiori dell’attuale gestione del sistema preventivo, il frequentissimo destino infausto cui vanno incontro i beni o le aziende già confiscati, che nella maggior parte dei casi finiscono col deteriorarsi o col cessare ogni attività.

 

Considerato che le luci e le ombre della prevenzione antimafia in ogni caso oggi coesistono mescolandosi insieme in una sorta di zona grigia, che non sempre consente distinzioni nette tra aspetti positivi e negativi, sarebbe difficile contestare l’esigenza di un ripensamento dell’intero settore, in vista di una sua complessiva riforma: da un lato per renderlo più razionale e organico e  potenziarne l’efficacia e, dall’altro, per rafforzare sensibilmente il livello delle garanzie (come da tempo, del resto, auspicano la dottrina accademica e l’avvocatura). E sarebbe anche necessario, più in generale, aprire un confronto pubblico su come curare le diverse patologie che in atto affliggono l’antimafia intesa nel senso più comprensivo, come il libro di Barbano appunto opportunamente suggerisce. Ma siamo capaci, nel nostro paese, di impegnarci in dibattiti e confronti autentici su un tema così divisivo?

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