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Il governo faccia il possibile per dare una svolta al processo Regeni

Filippo di Robilant

Dopo essersi costituita parte civile, la presidenza del Consiglio dovrebbe ricorrere alla Convenzione Onu contro la tortura, denunciando la mancata cooperazione giudiziaria da parte dell’Egitto. Un ricorso che, in base al parere di eminenti internazionalisti, non avrebbe ostacoli tecnico-giuridici


Al direttore - Cosa si può fare per ravvivare il procedimento penale per l’omicidio di Giulio Regeni finito su un binario morto? La difficoltà di portare avanti l’azione penale si è resa evidente nell’ottobre scorso quando la terza sezione della Corte d’assise ha rinviato gli atti al gup motivando la decisione con il rischio di nullità delle procedure notificatorie ai quattro indagati egiziani. La Procura di Roma ha quindi fatto ricorso alla Cassazione ritenendo gli indagati “finti inconsapevoli”. La Cassazione, il 15 luglio scorso, ha dichiarato il ricorso inammissibile valutando la sospensione “non abnorme”.  Se con la sospensione del procedimento abbiamo impartito una lezione di diritto e di garantismo agli egiziani (per quel che vale, cioè zero), come evitare che diventi anche la tomba del processo?

A parte notificare gli atti di comparizione direttamente all’Ambasciata egiziana a Roma, per il quale occorrerebbe un intervento legislativo, non si vede perché ulteriori rogatorie o pressioni politiche mirate a ottenere l’elezione di domicilio degli indagati dovrebbero in futuro dare un esito diverso da quelle precedentemente ignorate, anche alla luce della lettera del ministro Cartabia del 20 gennaio scorso al suo omologo egiziano, rimasta addirittura senza risposta, e la posizione della Procura del Cairo secondo cui l’indagine è chiusa. 

 

L’ipotesi, poi, di un ricorso contro l’Italia alla Corte europea dei diritti dell’uomo, come ha fatto capire l’avvocato della famiglia Regeni, appare prematura in quanto il procedimento penale non è formalmente chiuso, oltre a essere indubbio che la Procura di Roma abbia fatto di tutto e di più per portare gli indagati a giudizio e che un ramo del Parlamento abbia fatto la sua parte con una commissione d’inchiesta la cui relazione finale è stata approvata all’unanimità. Va allora ricordato che nell’autunno scorso la presidenza del Consiglio si è costituita parte civile nel procedimento, manifestando così la volontà di non rimanere estranea all’iniziativa giudiziaria avviata dalla famiglia. Si è trattata di una scelta tardiva e anche un po’ di comodo: far vedere al paese che il governo non rimaneva inerte ma senza aprire un vero contenzioso con l’Egitto. Al punto in cui siamo, il ricorso del governo alla Convenzione Onu contro la tortura appare ineludibile. Materia del contendere: mancata cooperazione giudiziaria e d’indagine da parte dell’Egitto.

 

Visto il periodo di autolimitazione del governo Draghi, tale ricorso rispetterebbe il principio di continuità dell’azione amministrativa? Da discutere ma senza dubbio rappresenta il logico e naturale corollario della sua volontà di costituirsi parte civile.

Di che si tratta? Il primo comma dell’art.30 della Convenzione stabilisce che ogni controversia tra stati parte “relativa all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione che non possa essere composta per via di negoziato verrà sottoposta ad arbitrato su domanda di uno di essi”. Una fase consensuale per l’organizzazione dell’arbitrato si apre nei sei mesi successivi alla domanda. Se in questi sei mesi l’Egitto non dimostra alcuna volontà ad accordarsi, l’Italia “può sottoporre la controversia alla Corte internazionale di giustizia, depositando una richiesta in conformità allo Statuto della Corte”. 

 

Ottenere dall’Egitto, di fronte al mondo intero, la conferma esplicita della sua volontà di non voler cooperare ma di preferire coprire i quattro esponenti dei servizi di sicurezza incriminati dalla Procura di Roma per gravi reati, incluso l’omicidio per uno di essi, sarebbe già un bel risultato. Se poi si dovesse andare in Corte, questo potrebbe spingere l’Egitto, di fronte al giudizio del diritto internazionale, a cominciare a cooperare realmente, fino all’estradizione degli imputati (anche in assenza di un Trattato bilaterale di estradizione, secondo la previsione dell’ex art.8, comma 2, della Convenzione). Va rilevato che lo stesso articolo 30 non rinvia alle specifiche clausole sull’accettazione della giurisdizione obbligatoria della Corte, che nel 1957 l’Egitto ha limitato alle sole questioni relative al Canale di Suez, ma al suo Statuto relativamente alla procedura da seguire per inoltrare una richiesta in caso di fallimento del tentativo di organizzare un arbitrato.

 

In sintesi: una controversia tra Italia ed Egitto è in essere da tempo, la materia del contendere è limpida e, in base anche al parere di eminenti internazionalisti, non ci sono ostacoli tecnico-giuridici alla formalizzazione del ricorso all’arbitrato. 

Attivare strumenti offerti dal diritto internazionale è un’azione concreta che ha il potenziale di smuovere le acque senza rappresentare, nel contempo, un atto ostile. Anzi, tali strumenti esistono proprio a salvaguardia delle relazioni amichevoli tra Stati contendenti. Ricorrervi, di fronte alla gravità di quanto accaduto, continua ad apparire come il minimo sindacale da parte dello stato italiano, a prescindere da chi lo guida. Una nuova udienza è stata fissata per il 10 ottobre prossimo. Prima, quindi, della formazione del nuovo governo. Per evitare l’ennesimo nulla di fatto, il governo in carica, ancorché per il disbrigo degli affari correnti, se la sente di gettare il cuore oltre l’ostacolo oppure lascia che sia il prossimo governo a salvare l’onore dell’Italia?
 

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