ANSA/FLAVIO LO SCALZO 

Processo alla malagiustizia

Cosa c'è in ballo nel rinvio a giudizio per Piercamillo Davigo

Luciano Capone

Un magistrato può legittimamente ricevere in via informale da un pm amico atti segreti e usare le informazioni per regolare i conti con gli avversari? 

Come prevedibile, dopo la chiusura delle indagini del mese scorso, la procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio per “rivelazione di segreto” di Piercamillo Davigo e del pm milanese Paolo Storari per la diffusione dei verbali di Amara sulla presunta loggia Ungheria. Una paio di mesi fa, durante una delle sue consuete partecipazioni in un talk-show, l’ex consigliere del Csm dichiarò che l’indagine ai suoi danni era un semplice incidente del mestiere, a differenza del caso del suo rivale Francesco Greco: il procuratore di Milano, all’epoca indagato sempre per la vicenda dei verbali di Amara per omissione di atti d’ufficio, secondo Davigo aveva sicuramente commesso un reato: “Ha violato la legge”, fu la sentenza.

Gli eventi stanno, almeno al momento, capovolgendo le convinzioni di Davigo: i magistrati di Brescia la pensano all’opposto. Per Greco hanno chiesto l’archiviazione (perché non spettava a lui fare o meno le iscrizioni di reato sulla base delle propalazioni di Amara). Al contrario per Davigo, che i verbali di Amara se li è fatti passare da Storari per poi diffonderne il contenuto a un numero consistente di persone, hanno chiesto il rinvio a giudizio. Rassicurando Storari di essere autorizzato a ricevere copia di quei verbali perché, in quanto componente del Csm, “il segreto investigativo su di essi non era a lui opponibile”, Davigo non solo è entrato in possesso di atti coperti da segreto investigativo fuori da ogni “procedura formale”, ma avrebbe violato “i doveri inerenti alle proprie funzioni” e abusato “della sua qualità di componente del Csm”, pur avendo “l’obbligo giuridico e istituzionale” di impedire “l’ulteriore diffusione” dei verbali di Amara. Insomma, non solo, secondo l’accusa, ha istigato Storari a commettere il reato di rivelazione di segreto d’ufficio, ma a sua volta, secondo gli inquirenti, si è messo a spiattellare in giro il contenuto di atti giudiziari secretati in alcuni casi al solo scopo di motivare le ragioni dell’interruzione dei rapporti con il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, suo ex amico e compagno di corrente citato da Amara peraltro in circostanze inverosimili.

La procura di Brescia, infatti, non contesta a Davigo le rivelazioni al procuratore generale e al presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio, che evidentemente potevano essere messi al corrente. Ma contesta le rivelazioni ai consiglieri del Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna; al presidente della commissione Antimafia, il senatore del M5s Nicola Morra; e alle sue due segretarie al Csm, una delle quali, Marcella Contrafatto, è indagata per calunnia dalla procura di Roma per aver diffuso in forma anonima quei verbali  poi  finiti ai giornali e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Insomma, se la linea difensiva di Davigo è sempre stata quella di non aver rispettato le procedure per poter meglio tutelare la segretezza di un’indagine delicata che il vertice della procura di Milano colpevolmente trascurava, la procura di Brescia ribalta la prospettiva: proprio il suo comportamento fuori dalle regole ha prodotto una circolazione incontrollata di atti secretati. Anche perché molte delle rivelazioni di Davigo hanno riguardato il coinvolgimento del consigliere Ardita, che veniva messo così in cattiva luce con la possibilità di condizionare il normale funzionamento del Csm.

Su questa vicenda i fatti paiono molto chiari e non sembrano essere oggetto di contestazione. Per l’accusa si tratta di un reato, mentre per la difesa si tratta di una condotta lecita. Pertanto sarebbe già possibile esprimere un giudizio sui fatti, che sono assodati, proprio in base alla filosofia di Davigo secondo cui “l’errore italiano è quello di dire sempre: ‘aspettiamo le sentenze’. No, non aspettiamo le sentenze”. E invece, mai come in questo caso, è importante aspettare la sentenza. Non tanto per la sorte individuale di Davigo, che come ogni cittadino è innocente fino a prova del contrario, ma per le conseguenze istituzionali del verdetto. Ciò che dovrebbe preoccupare non è se venisse accertata una violazione delle leggi, cosa che può capitare nel Csm come in ogni altro contesto sociale, ma se la condotta di Davigo fosse ritenuta lecita. Vorrebbe dire che un consigliere del Csm e capocorrente della magistratura organizzata può legittimamente ricevere in via informale da un pm amico atti segreti d’indagine e che può usare queste informazioni, sempre in via informale, per regolare i conti con gli avversari e risolvere questioni personali. Ben presto il Csm si trasformerebbe in una centrale di dossieraggio istituzionalizzato, con il potere di condizionare il funzionamento di tutte le istituzioni democratiche. E’ probabile che in parte sia già così, ma quantomeno secondo il senso comune non è una cosa normale.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali