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Perché riformare la giustizia tributaria è un investimento

Gaetano Ragucci

Non bastano piccoli aggiustamenti, serve un cambiamento strutturale: una nuova magistratura

La relazione della Commissione per lo studio della riforma della giustizia tributaria recepisce due proposte molto diverse per finalità e portata, e le presenta come soluzioni non politicamente neutrali, la cui scelta esorbita dai compiti di un organo tecnico. Il dibattito seguito alla pubblicazione del documento, e l’avvio di una raccolta di firme a sostegno di una petizione per la riforma strutturale di un settore troppo a lungo trascurato, le collocano all’interno di una dialettica tra forze conservatrici e riformatrici rimasta irrisolta all’interno della stessa Commissione. Ciò rischia di sovrapporre un’etichetta ideologica a un problema che va invece discusso nei contenuti. In che senso si può dunque dire che le due proposte non sono politicamente neutrali? In almeno due sensi, di cui uno è subito evidente, e l’altro lo diventa in prospettiva.

Negli ambienti della magistratura togata si coltiva l’idea di rafforzare i collegi del secondo grado di giudizio aumentando la quota di magistrati provenienti dalle altre giurisdizioni (civile, penale, amministrativa, contabile), nella misura e per il tempo necessari allo smaltimento dell’arretrato. In tal modo si lascerebbe però invariato l’assetto complessivo della magistratura tributaria, che resterebbe in larga parte costituita da giudici onorari. Rispetto a questa soluzione, che per essere attuata non richiederebbe l’adozione di complesse misure legislative, l’istituzione di un ruolo di magistrati specializzati e di carriera implica invece scelte politiche fondamentali, quanto meno in materia di organizzazione e di funzionamento dei servizi della giustizia tributaria (da affidare al ministero della Giustizia, o alla Presidenza del Consiglio dei ministri), e di autogoverno della magistratura che la amministra (il  Consiglio di presidenza della giustizia tributaria non ha le stesse prerogative del Consiglio superiore della magisratura). Ed è un fatto che le soluzioni a questi problemi possono riflettersi sugli equilibri interni all’intero ordinamento giudiziario. Un compito impegnativo ma non arduo, per un governo nato per attuare le riforme indicate dal Pnrr.

Non ci si può però nascondere che, in prospettiva, l’istituzione di una magistratura tributaria è destinata a produrre effetti ulteriori, e cioè a modificare anche la funzione di governo della materia fiscale. Con benéfici effetti di contrasto al decadimento del diritto tributario a pura tecnica del prelievo, scissa dai valori costituzionali che lo sorreggono, che è quanto la dottrina auspica da tempo. 

 

La riforma di cui si dibatte si inserisce, infatti, in uno scenario che è il prodotto di fattori distorsivi dell’originario disegno costituzionale ormai noti. In primo luogo, v’è stata l’espansione della funzione di governo sino alla sussunzione della funzione legislativa, che per gli elementi essenziali del tributo l’art. 23 Cost. riserva al Parlamento (nella materia tributaria le leggi sono una minima parte della produzione normativa). A ciò si aggiunge l’erosione della funzione di indirizzo politico da parte di una governance fiscale europea, nella quale decisioni assunte al di fuori del circuito popolo-Parlamento-governo cercano legittimazione sotto forma di regole tecniche, che ne travisano la vera natura. Questa situazione condiziona gli equilibri interni al governo, valorizzando il ruolo del ministro dell’Economia e delle Finanze come garante del rispetto dei vincoli europei, in un rapporto diarchico con il Presidente del Consiglio, che è il responsabile dell’unitarietà dell’indirizzo politico. E condiziona anche le relazioni tra governo e amministrazione. Questa è strutturata in agenzie capaci di erogare prestazioni valutate in termini di costi e benefici, che nei rapporti con i contribuenti si avvalgono di istituti (dispositivi, partecipativo-difensivi, deflattivi, ora anche collaborativi) diretti a un recupero di efficienza, a fronte degli esiti, giudicati da questo punto di vista insufficienti, di una funzione impositiva concepita come vincolata, sottoposta a un controllo di legittimità compiuto a posteriori dal giudice. Così prende consistenza un ordinamento tendenzialmente autonomo dal consenso all’imposizione, che nel disegno della Costituzione avrebbe dovuto essere veicolato dagli istituti della rappresentanza politica.
In queste condizioni, la conservazione dell’attuale conformazione della magistratura tributaria, solo rafforzata dall’ingresso di una maggiore quota di magistrati togati privi di specifica preparazione, confermerebbe l’amministrazione nel ruolo di unica depositaria delle competenze necessarie al funzionamento della macchina del fisco. Rispetto a una burocrazia così consolidata nel ruolo di garante del pareggio del bilancio e della sostenibilità del debito (art. 97 c. 1 Cost.), il giudice continuerebbe a operare come uno strumento di enforcement della legge d’imposta, il cui ambito di intervento sarebbe limitato alla tutela dei diritti del contribuente nelle ipotesi più gravi di lesione. Laddove, invece, l’istituzione di una magistratura specializzata predisporrebbe l’ordinamento al recupero di valori (a partire dalla razionalità, e dalla certezza del diritto), ulteriori rispetto alla dimensione contabile, e al disvelamento dei significati civili e politici impliciti nella disciplina dei tributi. Parafrasando il linguaggio delle discipline economiche, questa riforma sarebbe un investimento in conoscenza e innovazione da cui l’intera dinamica dell’imposizione avrebbe solo da guadagnare.

Un investimento, oltre tutto, necessario, perché l’assetto istituzionale della materia non può rinunciare a riflettere il pluralismo dei valori di una società complessa, senza alimentare fenomeni di distacco dalle istituzioni, che le passate stagioni politiche hanno preparato.

 

Gaetano Ragucci

Professore ordinario Diritto tributario dell’Università degli Studi di Milano

e Presidente dell’Associazione nazionale tributaristi italiani

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