Una delle priorità è la riforma del Csm. È il cuore del sistema giudiziario e, se non funziona quello, non funziona nulla (foto LaPresse) 

Giustizia oltre gli arresti

Pier Ferdinando Casini e Michele Vietti

Superare la legge Bonafede, misurare il rendimento dei pm, rafforzare i poteri del capo dello stato, offrire alternative alla norma anti prescrizione. Cara Cartabia, caro Draghi, è il momento di osare

L’impraticabilità di una “riforma della giustizia”, di cui si parla in modo inversamente proporzionale a quanto si fa, sembrava dover ricevere una decisa smentita dal cosiddetto “caso Palamara”. Lo scorso 26 maggio proprio sul Foglio uno di noi scriveva, citando il Vangelo, oportet ut scandala eveniant, intendendo che dallo scandalo possono derivare effetti positivi in termini di reazione ed auspicando un soprassalto della politica che, approfittando di un mutato rapporto di forza nell’atavico braccio di ferro con i magistrati, intervenisse finalmente a raddrizzare le storture del sistema giudiziario, troppo lamentate e mai curate.

 


Sono passati ben undici mesi e non è stato fatto niente! Palamara è diventato la star delle librerie e della tv; il Csm si trascina in condizioni di assoluta delegittimazione; i processi civili e penali, complice il Covid, continuano a mantenere i non invidiati primati europei di lunghezza; il corto circuito mediatico-giudiziario continua a consegnare all’opinione pubblica condannati in anticipo che, al termine di un calvario personale, spesso vengono assolti con la sentenza definitiva; la curiosità pruriginosa dei lettori continua ad essere alimentata da intercettazioni sempre più sofisticate che per lo più parlano di questioni penalmente irrilevanti e di terzi estranei all’indagine.


Verrebbe da dire che se neanche il disvelamento del “Sistema”, con il suo strascico di indignazioni, prese di distanza, promesse di abbandonare quelle logiche, ha prodotto risultati, l’irredimibilità della nostra giustizia può dirsi ormai acclarata. Eppure, da convinti sostenitori della “politique d’abord” (motto coniato da Maurras ma adottato da Nenni!), non riusciamo a rassegnarci a registrare una sconfitta, ma pensiamo che questo Governo di larghissima coalizione non possa abdicare alle sue responsabilità, non solo in campo economico ma anche sul fronte giudiziario, perché il funzionamento della giustizia concorre in maniera determinante alla competitività del sistema paese.

 


Purtroppo, le cose da fare sono sempre le stesse, dal momento che non sono mai state messe in opera riforme che ovviassero a mali antichi, conosciuti e curabili con rimedi ampiamente condivisi. Fior fiore di commissioni ministeriali, di convegni, di pubblicistica, di dibattiti parlamentari e universitari hanno sviscerato le criticità e individuato le soluzioni. Non è più il tempo dello studio ma dell’azione.


Proviamo a rassegnare una breve lista degli interventi più urgenti, a promemoria per i pubblici decisori e a scarico della nostra coscienza. Partiamo dal Csm perché è il cuore del sistema e, se non funziona quello, non funziona nulla. 


Il Csm, per recuperare il suo ruolo di governo autonomo della magistratura, deve essere eletto per la componente togata con una legge che preveda circoscrizioni elettorali più piccole e consenta un panachage di preferenze tra liste diverse, per limitare il potere di condizionamento correntizio.


La sezione disciplinare dovrebbe essere composta da eletti destinati a quella sola funzione, evitando commistioni tra ruolo giudiziario e amministrativo.


I togati uscenti non dovrebbero poter subito concorrere a posti direttivi o chiedere il collocamento fuori ruolo.


I poteri del Capo dello Stato di sciogliere il Consiglio andrebbero rafforzati.


La consigliatura dovrebbe durare di più e la scadenza andrebbe scaglionata, per assicurare continuità e aggiustamenti in corsa.


Gli uffici direttivi andrebbero coperti secondo un rigido criterio cronologico stabilito per legge, che dovrebbe pure fissare, una volta per tutte, i parametri di selezione, non più affidati alla cavillosa normativa consigliare che rappresenta un invito a nozze per le impugnazioni al Tar (la cui competenza andrebbe sostituita da quella di una sezione del Consiglio di Stato).
La progressione in carriera dovrebbe essere vagliata con molto rigore alla luce non di autorelazioni encomiastiche, ma dei risultati sul lavoro, che per un giudice sono le conferme del grado superiore e per un pubblico ministero l’esito delle azioni penali esercitate.

 


Per il processo civile è maturo il tempo di una scelta strategica: o si opta in via generalizzata per il rito del lavoro (e allora il principio di oralità sancito dall’art. 180 del Codice di procedura civile riprende ad avere un senso), oppure vanno soppresse tutte le udienze di mero richiamo alle difese scritte (decisione sulle istanze istruttorie, precisazione delle conclusioni…) e svolte da remoto tutte quelle in cui è indispensabile il confronto tra Giudice e difensori (anche quelle di assunzione testi). La sostituzione della citazione col ricorso consentirebbe di fissare da subito un calendario del singolo processo, che ne preveda lo svolgimento nel rispetto della “ragionevole durata”. 


Nel Recovery plan, anche per la giustizia penale, si punta sulla digitalizzazione del processo. Speriamo che non faccia la fine della digitalizzazione del processo civile in Cassazione, appena entrata in vigore: la “scrivania del magistrato” gira su un sistema vetusto, che si blocca in continuazione e che ha errori sistemici di tale gravità che dopo quindici giorni di sperimentazione ha indotto il Ministero a confessare di dover far quasi tutto daccapo (per fortuna che il sistema è stato provvidenzialmente previsto come opzionale rispetto a quello tradizionale cartaceo).
Il dibattito ruota intorno al ddl delega di Bonafede che prevede, in sostanza, la rimodulazione della durata delle indagini preliminari in funzione della gravità dei reati per cui si procede. La sola previsione della responsabilità disciplinare dei magistrati che eccedano i tempi di conclusione delle indagini, in assenza di qualsivoglia sanzione processuale di inutilizzabilità degli atti compiuti fuori termine, rischia di essere una grida manzoniana.


Forse, per rendere efficace la misura, occorrerebbe ipotizzare che se il pm non fa le indagini nei tempi massimi di durata, non si può rimediare con un incidente probatorio davanti al gup o con la cooperazione istruttoria in dibattimento ex art. 507 del Codice di procedura penale, altrimenti la previsione è del tutto inutile.


Per rendere più difficilmente eludibile il termine di durata massima delle indagini si vorrebbe istituire un meccanismo di verifica giudiziale, della tempestività nell’iscrizione delle notizie di reato da parte del pubblico ministero. 


La verifica giudiziale, a parte che interverrebbe ad indagini preliminari già concluse, rischia di essere un altro appesantimento alla velocizzazione, che pure si dice sempre di voler perseguire (più sub-fasi si introducono, più il processo rallenta).

 


Si vorrebbe introdurre l’obbligo per il pm di depositare gli atti delle indagini al decorso dei termini massimi di durata, con l’ulteriore obbligo di presentare richiesta di archiviazione o esercitare l’azione penale entro il termine di trenta giorni dalla presentazione della relativa richiesta da parte del difensore dell’indagato o della persona offesa.


Termini ordinatori (o canzonatori?) non saranno sufficienti ad ottenere il risultato auspicato.  La discovery coatta non prescinde dalle lungaggini dell’art. 415 bis che consente lo svolgimento di nuove indagini. 


Si vorrebbe modificare la disciplina dei riti alternativi in modo da favorirne l’adozione.


A 32 anni dall’introduzione dei riti alternativi, parlare di come promuoverne l’adozione sembra una ennesima diversione. Peraltro ampliare l’accesso al patteggiamento, accompagnandolo con una lunga serie di motivi ostativi e di esclusioni, finisce per togliere con una mano ciò che si offre con l’altra. 


Si vorrebbe introdurre l’obbligo per il giudice di stabilire e comunicare alle parti, all’inizio del dibattimento, il calendario del processo.


A cavallo tra il 2010 e il 2015 si tentò di imporre il calendario del processo civile, provocando il rigetto della previsione da parte dei magistrati, che l’hanno confinata tra le norme disapplicate. 
All’ufficio commissioni dell’ufficio legislativo della Giustizia giacciono progetti di legge di riforma del processo penale pronti ad essere portati in Parlamento, per abbandonare questo Giano bifronte, che doveva nascere come accusatorio e, complice la nostra resistenza ai cambiamenti e i quaranta e più interventi additivi della Consulta, è tornato a essere sostanzialmente inquisitorio.

 


In tema di prescrizione si rischia di creare incostituzionali disparità di trattamento fra condannati ed assolti in primo grado. Mentre la prescrizione si sospende in caso di sentenza di condanna in primo grado, continua a decorrere in caso di sentenza di assoluzione; nel caso in cui la sentenza di assoluzione in primo grado venga poi riformata in appello, potrebbe comunque maturare la prescrizione in favore dell’imputato, creando disparità tra un condannato in primo grado ed un condannato in secondo grado.


La prescrizione non sarà l’unico rimedio alla lunghezza del processo penale ma o si trova un’alternativa efficace per garantire la ragionevole durata, oppure “il detenuto in attesa giudizio” di Sordi non è più tollerabile.


Conclusivamente, le circostanze sembrerebbero propizie per fare finalmente qualcosa. Se così non sarà non ci sarà amnistia che possa far assolvere la politica da un ennesimo reato di omissione. 

 

 

Pier Ferdinando Casini 
già presidente della Camera dei Deputati

Michele Vietti 
già vicepresidente del Csm