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Il caso Boda e il trionfo della società punitiva

Andrea Venanzoni

Per i gazzettieri delle Procure, l’accusa è condanna senza necessità di processo: gli assolti d’altronde non sono innocenti ma colpevoli che l’hanno fatta franca

“Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla stessa finestra per dare una occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme”, così David Foster Wallace in ‘Infinite Jest’, parlando del profondo senso di disperazione che coglie la persona depressa o terrorizzata dalle conseguenze di un evento perturbante.

 

E leggendo della drammatica vicenda della dirigente Miur Giovanna Boda quello è uno dei primi pensieri che mi è balenato per la testa, assieme alla copertina di un altro romanzo di uno dei più straordinari narratori americani, Don DeLillo, ‘L’uomo che cade’: ancora ricordo, in maniera vivida e dolente, quello stupefatto orrore davanti allo schermo tv che rimandava, plasticamente, le sagome di carne, puntolini neri come formiche, venir giù per una disperazione abissale dalle Twin Towers in fiamme, medesima scena immortalata sulla copertina di quel volume.

 

 

Non puoi davvero sentire quel gorgo violaceo che ti sventra le viscere: puoi solo immaginare, cercare di immedesimarti sapendo che non ci riuscirai nemmeno un pochino, quel peso insostenibile che ti si abbatte sulla testa e sull’anima e che mette in discussione ciò che sei, ciò che hai fatto, chi hai amato e tutto ciò che hai vissuto, ogni singolo istante, ogni attimo, ogni frame di un film chiamato esistenza esposto alla pubblica esecrazione.

 

C’è lei, una brillante, giovane e stimata Dirigente del Ministero della Pubblica Istruzione, ferma nello studio della sua legale di fiducia, la professoressa Paola Severino. E c’è quella accusa, di corruzione per affidamenti diretti sotto-soglia, che non sarebbe nulla se non fosse stata pasturata e triturata nell’etere e nella coscienza collettiva chiamata opinione pubblica dalla Gazzetta delle Procure, quella stampa per cui un sospetto, una accusa, una diceria equivalgono a sentenza passata in giudicato, irrevocabile e marmorea come le convinzioni del partito giustizialista.

 

Chiunque bazzichi per le pubbliche amministrazioni sa bene la dolente realtà della contrattualistica pubblica e della difficoltà di decidere. Se ne scrive, se ne studia, ci si lamenta quando si evoca la burocrazia difensiva ma poi, in concreto, si fa davvero poco, lasciando i dirigenti meritevoli e di grandi capacità soli con le loro responsabilità e con gli occhiuti controlli incrociati di magistrature varie, penali e contabili, e di autorità indipendenti, e comitati, associazioni, parlamentari e gazzettieri giustizialisti sempre a caccia di qualche Cristo da crocifiggere.

 

Col medesimo piglio del Grande Inquisitore de ‘I Fratelli Karamazov’, il quale accecato dal dogma condanna Cristo tornato in terra, non accettando la realtà dei fatti nemmeno trovandosela davanti nel suo fulgore.

 

Fiat iustitia, pereat mundus, scriveva anni e anni fa Salvatore Satta a proposito del bieco formalismo giudiziario e di una certa mentalità perversa che annichilisce qualunque fattore umano presente nel dispiegarsi empirico della realtà giuridica.

 

Per i gazzettieri delle Procure, l’accusa è condanna senza necessità di processo: gli assolti d’altronde non sono innocenti ma colpevoli che l’hanno fatta franca e che si sono sottratti, per varie ragioni, per legulei potenti e contorti, per leggi dolosamente scritte male, per contiguità col potere politico, alla inevitabile e giusta condanna.

 

Mi ha molto colpito una frase letta nel vorticare digitale di Twitter, babele di opinioni spesso non richieste ma imprescindibile termometro del sentire e delle passioni politiche: una tale, rinomata si dice per le sue battaglie di diritti civili, commentando la notizia ha scritto qualcosa che suona come ‘ma perché un innocente dovrebbe mai buttarsi di sotto?’. Questo è il clima, la cappa asfissiante che si è abbattuta sulla Boda. Il ritorno ad una dimensione da giudizio di Dio, da supplizio, da ordalia, da ‘uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi’, un clima che porta le persone, anche quelle che si dovrebbe presumere quali ragionevoli, a non capire per quale motivo una persona, forse e anche soprattutto in quanto innocente, arrivi all’estremo di quel gesto. E quella finestra, aperta sul vuoto, aperta sulla caduta e sulla liberazione dalla disperazione, deve essere sembrata alla dirigente l’unica strada percorribile per non dover soggiacere nelle giornate seguenti allo stillicidio di altri particolari, giuridicamente inutili ma avvilenti e degradanti l’umana dignità.

 

La nostra, dicono e lo dice anche Benigni quando ne pasticcia come ha già fatto coi versi di Dante i commi e gli articoli, sarebbe la Costituzione più bella del mondo. E in questa Costituzione è stato scritto, nel corpo dell’articolo 27, che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Ma quel comma specifico deve esser stato frettolosamente sbianchettato e certo è scarsamente letto e ancor meno accettato o compreso: non piace, non piace a quella (anti)politica che deve esibire mostri, scalpi e capri espiatori per celare la propria insipienza, non piace ai magistrati mancati riciclatisi giornalisti, non piace ai poliziotti in toga e non piace a quella parte dell’opinione pubblica che mastica e rumina odio e invidia sociale.

 

Brillante. Intelligente. Donna. Giovane. Di successo. Impegnata nel sociale. Tutte le qualità ‘sbagliate’ per ricevere umana solidarietà in una società come la nostra. La Boda deve essersi sentita non metaforicamente come quei puntolini di carne nel cuore spezzato delle Torri Gemelle: mentre tutto si fa nero, si incendia e persino il metallo e la pietra ardono e vanno in liquefazione, arriva quel senso pesante, quel vortice, quell’abisso dentro cui si è risucchiati. La sofferenza senza speranza di redenzione.

 

E’ il trionfo della ‘società punitiva’, in cui l’azione giudiziaria penale viene esercitata con funzione simbolica e quasi mistica, e in cui alle categorie del diritto si sostituiscono quelle religiose. Il diritto penale come strumento di bonifica culturale della società, come arma di distruzione, e di distrazione, di massa, in combinato con la eco dolorosa delle notizie mandate in prima pagina su certi giornali. E’ quel ‘diritto penale totale’ su cui il compianto Filippo Sgubbi ha scritto di recente un pregevole saggio, quel diritto che macina le ossa e che giudica e manda al carnefice senza legge, senza verità e senza colpa, e su cui Giovanni Fiandaca da anni, sin da quell’ormai sideralmente lontano 2013, anno della pubblicazione sulle pagine di Criminalia del saggio ‘Populismo politico e populismo giudiziario’, medita, si interroga e ci interroga. Fiandaca che di recente, nel dicembre 2020 e proprio sulle pagine de Il Foglio, ha parlato della insopprimibile necessità di un riorientamento collettivo per superare questa palude di populismo giudiziario ormai tracimante in ogni dove. Talmente rabbioso e montante da travolgere anche i suoi stessi profeti, come ben sa Beppe Grillo che col suo video in maldestra difesa del figlio ha sconfessato anni e anni di quel furioso giustizialismo su cui sono state edificate le fortune elettorali del suo movimento politico.

 

Perché non possiamo nasconderci dietro un dito: se un giornale, a corpo straziato e sofferente della Boda appena raccolto dal selciato, dopo la caduta, con le condizioni critiche, in ospedale, a lottare tra la vita e la morte, decide di anteporre nel proprio titolo la notizia delle indagini e delle accuse rispetto al fatto drammatico della caduta e delle condizioni gravissime della donna, vuol dire che la Costituzione ce la siamo dimenticata, e con essa qualunque senso di umanità. Forse riposta in un cantuccio, forse sbrigativamente gettata in un canale di scolo la Costituzione e il suo garantismo, fatto è che ormai può davvero capitare a chiunque di finire in questo osceno teatro da Grand Guignol, senza alcuna empatia, senza alcuna forma di umana pietas, consegnati al boia che ci taglierà la testa senza aver nemmeno sentito recitare la nostra ultima preghiera.

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