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La dirigente del Miur

Il caso Boda e la giudiziaria

Un tentato suicidio per cambiare stile

Maurizio Crippa

Una dirigente dell'Istruzione molto stimata, un'indagine in attesa di spiegazionei e l'improvvisa cautela della stampa. Bene, ma non dovrebbe essere così sempre? Sia per il rispetto delle persone, sia per la capacità di valutare i dati delle indagini, sia per ascoltare tutti, non solo i pm? 

E’ quindi pacifico, vista la sproporzione tra la cifra delle presunte tangenti e quella degli affidamenti diretti, che gli inquirenti ritengano che il rapporto corruttivo” possa riguardare anche altro. Così scriveva giovedì il Fatto, sulla notizia del tentato suicidio della dirigente del ministero dell’Istruzione Giovanna Boda, alto grado di viale Trastevere con piena fiducia del ministro Patrizio Bianchi e di altri in precedenza, dopo la scoperta di essere inquisita per corruzione e aver subito perquisizioni. “Pacifico”, ma perché poi? Non potrebbe essere un errore in fase d’indagine? Forse che non se ne sono mai visti? Purtroppo è piena la storia giudiziaria italiana di accuse corruttive enormi che non hanno poi retto nemmeno al pallottoliere.

 

La contestazione, al momento, riguarda due affidamenti per un totale di 70 mila euro a un presunto corruttore che ne avrebbe pagati, negli anni, quasi 700 mila. E infatti: “Dell’indagine si sa ancora poco, oggi come oggi non c’è logica in una tangente otto volte più onerosa dei guadagni che avrebbe garantito”. Ma a scriverlo non sono i difensori di Giovanna Boda – tuttora ricoverata in gravi condizioni – bensì Repubblica, quotidiano che (al pari di tutti gli altri) non è mai andato molto cauto con le carte d’accusa. Da qui nascono un paio di osservazioni di un certo interesse.

 

La tragedia, sfiorata, accade mercoledì, ieri la Verità, che con più aggressività aveva titolato sul caso, e il Fatto, per il quale “è pacifico” che i pm ritengano che la corruzione ci fu, hanno sospeso la caccia. Insistono invece il Corriere e Repubblica, ma con un tono molto diverso da quello cui siamo abituati da decenni. Un tono cauteloso e quasi dubitativo che in realtà Repubblica ha già il primo giorno, quando Roberto Zunino, storico cronista di giudiziaria, utilizza solo le iniziali, G. B., per indicare la persona (del resto nota, quantomeno negli ambienti ministeriali) definita “stimata e generosa collaboratrice di cinque ministri”. “Per ora i conti non tornano” scrive sempre il primo giorno.

 

Ieri, il Corriere sceglie di lasciare la parola a Federico Bianchi di Castelbianco, medico ed editore e presunto corruttore: un pezzo difensivo e innocentista. Repubblica ha un lungo articolo molto giudizioso e prudente, come in verità sarebbe giusto leggerne sempre quando ci si occupa di giustizia, soprattutto in materia di accuse di corruzione contro politici o esponenti della pubblica amministrazione. Un tratteggio delicato e rispettoso della persona, le sue condizioni di salute, la famiglia, l’impegno sui temi della “legalità” come contenuto da perseguire nelle scuole. Poi una notazione sul fatto che gli investigatori sono stati “probabilmente ispirati dall’interno del ministero”. Maddai? S’è mai visto in altri casi? Ora, sia chiaro, dell’inchiesta poco si sa e anche meno importa, in questo articolo. Può anche darsi che la dirigente del ministero e uno storico collaboratore dello stesso abbiano veramente commesso reati. Ed è possibile che ci siano interessi contrapposti nell’origine di misteriose imbeccate alla procura. Quel che è interessante, o drammatico, notare è che siamo abituati da sempre a storytelling a senso unico: il pentito di turno ha sempre ragione e il whistleblowing è una pratica santa e sempre al di sopra di ogni sospetto. Sappiamo bene che non  è sempre così. Che in questo caso si usi qualche precauzione in più è soltanto doveroso. Ma è quasi una notizia.

 

Certo, il caso è particolare. Giovanna Boda è una funzionaria che ha lavorato con ministri di vario orientamento, sempre apprezzata; il suo impegno per iniziative come la “Nave della legalità” la collocano automaticamente dalla parte dei buoni, al riparo dai veleni a mezzo stampa, suo marito è un magistrato e l’avvocato cui si era rivolta un nome importante del foro romano. Ma non dovrebbe essere così per ogni indagato? Non dovrebbe essere il minimo di uno stato di diritto e di una stampa non partigiana o asservita agli umori forcaioli del pubblico? Domande a perdere. Ma il caso dimostra, e nella tragedia forse potrebbe essere una buona notizia, che si può fare diversamente.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"